Archive for August 27, 2020

Long Covid: chi è negativo, ma non è mai guarito (e ha sintomi da mesi)

Gabriella Aglianò ha 51 anni e abita in provincia di Catania. Si è ammalata di Covid-19 il 13 marzo ed è stata in ospedale 39 giorni con diagnosi di polmonite interstiziale bilaterale. È tornata a casa il 21 aprile dopo i due tamponi negativi (che servono a decretare la non contagiosità e la guarigione), ma ancora adesso, a distanza di ben cinque mesi dal giorno dell’esordio dei sintomi, non si sente “guarita”. «Ho una grande stanchezza, sto sdraiata perché mi affatico, ho dolori articolari, perdo i capelli a mazzi, tanto che non volevo più pettinarmi – ci racconta al telefono -. Ho anche avuto un’eruzione cutanea alla gamba destra. Mi danno fastidio i suoni, le luci e i rumori, ma soprattutto non tengo a mente quello che mi dicono, cancello tutto subito. Si figuri che quando sono tornata ho chiesto se avessero cambiato i mobili: non riconoscevo più casa mia».

Stanchezza e perdita di memoria

Gabriella è stata in ospedale, ma anche chi “si è fatto la malattia a casa” (più o meno grave) può avere problemi “post-Covid” che si protraggono per mesi. Valentina ha 45 anni, il 13 marzo ha iniziato con la febbre che le è durata più di un mese. Quando si è presentata a Milano in Pronto Soccorso con febbre a 40 non aveva la polmonite e l’hanno rimandata a casa: «Non c’era posto, ho visto la gente morire lì, in sala d’attesa». Dopo un mese, e giorni di febbre alta passati da sola sdraiata a terra per la paura di cadere e svenire, è andata a fare i due tamponi di controllo che sono risultati negativi, ma la febbre c’era ancora e la sera saliva fino a 38. E ora che siamo in agosto come si sente? «La febbre e le bolle sulla pelle sono rimaste fino a luglio. Ho iniziato anche a perdere i capelli. Mi sono svegliata e avevo le ciocche a terra. E poi la stanchezza: anche in vacanza con mio figlio sono stata tre settimane sdraiata. E la memoria: mentre leggo, le parole mi sfuggono, non ricordo i concetti e quindi ci rinuncio. Per lavorare (Valentina fa l’architetto, ndr) devo rileggere continuamente. Mi confondo, prima avevo una buonissima memoria».

Perché il coronavirus colpisce più gravemente gli uomini?

Ormai lo sappiamo: nessuno è immune dal coronavirus che può contagiare chiunque, dai bambini agli anziani anche se con percentuali molto diverse. Gli uomini più anziani hanno però il doppio delle probabilità di ammalarsi gravemente e morire rispetto alle donne della stessa età. Il primo studio che ha indagato sulla risposta immunitaria in base al sesso è stato appena pubblicato su Nature e ha fornito un importante indizio: secondo i ricercatori gli uomini producono una risposta immunitaria al virus più debole rispetto alle donne. I risultati suggeriscono che gli uomini, in particolare sopra i 60 anni, potrebbero dover dipendere maggiormente dai vaccini per proteggersi dall’infezione e potrebbero aver bisogno di dosaggi differenti con più richiami.

Il sistema immunitario

Le donne hanno risposte immunitarie più veloci e più forti, forse perché i loro corpi sono «attrezzati» per combattere gli agenti patogeni che minacciano i bambini in grembo o neonati. Anche se, è noto, nel tempo, un sistema immunitario in uno stato di allerta costante può essere dannoso. La maggior parte delle malattie autoimmuni, caratterizzata da una risposta immunitaria eccessiva, sono ad esempio più frequenti nelle donne rispetto agli uomini.

Coronavirus, che cosa sono i test sierologici e perché gli insegnanti dovrebbero farli

Due tipi di test

I test sierologici sono essenzialmente di due tipi: quelli rapidi e quelli quantitativi. I primi, grazie ad una goccia di sangue, stabiliscono se la persona ha prodotto anticorpi -e quindi è entrata in contatto con il virus-; i secondi, dove serve un prelievo di sangue, dosano in maniera specifica le quantità di anticorpi prodotti.

Microfoni, distanziamento, ventilazione meccanica: come limitare il contagio a scuola

Come calcolare il rischio di contagio in ambienti chiusi

Sulla base delle conoscenze scientifiche raggiunte finora un gruppo di lavoro dell’Università di Cassino, guidato dal professor Giorgio Buonanno, in collaborazione con la Queensland University of Technology di Brisbane e la New York City ha sviluppato un tool che stima il rischio di contagio in ambienti chiusi. «Le scuole insieme ai mezzi di trasporto pubblico rappresentano sicuramente delle occasioni di contagio. La brutta notizia – spiega Buonanno, professore di Fisica Tecnica Ambientale, che da anni si occupa del tema della qualità dell’aria negli ambienti indoor – è che le aule scolastiche rappresentano una criticità a causa della ridotta ventilazione (tipicamente naturale con ricambi estremamente ridotti), della ridotta volumetria e degli elevati tempi di esposizione: in classe si resta per molte ore. La bella notizia è che abbiamo la possibilità di stimare il rischio contagio anche nelle aule scolastiche e, di conseguenza, intervenire per mantenere indici di contagio accettabili».

L’infiammazione cronica minaccia anche le ossa: ecco la dieta giusta

Di infiammazione cronica, e del potenziale strumento di difesa costituito da alcuni cibi – come le verdure, specie quelle a foglia verde e l’olio d’oliva meglio se extravergine – si parla sempre più spesso in relazione a molte malattie. Uno studio su questo tema ha affrontato un aspetto nuovo: la possibile relazione fra dieta pro-infiammatoria e fragilità ossea, un problema molto diffuso (al mondo si verificano più di 8 milioni di fratture all’anno) che ha nell’osteoporosi il principale fattore di rischio.


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Gli alimenti che peggiorano l’infiammazione (e quelli che invece sono antinfiammatori)

Le malattie infiammatorie croniche


I dati

Sulla base di questo studio, condotto su più di 3600 americani che avevano partecipato a una indagine sull’artrosi, alcuni ricercatori italiani, europei e americani hanno valutato (con un metodo appositamente messo a punto) l’indice di infiammazione della dieta, che hanno poi messo in relazione con le fratture verificatesi nel periodo di follow up durato otto anni. Dopo aver corretto i dati relativamente a diversi fattori che potevano “inquinare” i risultati, i ricercatori hanno osservato che le donne con la dieta dal più elevato indice infiammatorio avevano un rischio di fratture significativamente maggiore rispetto alle donne con un regime alimentare a basso indice di infiammazione. «Molti studi hanno dimostrato che la dieta ha una grande capacità nell’influenzare il grado di infiammazione del nostro organismo — commenta Nicola Veronese, ricercatore del CNR di Padova e dell’IRCCS De Bellis di Castellana Grotte, in Provincia di Bari, e primo autore dello studio — e l’infiammazione è un importante fattore di rischio per le fratture. Il nostro lavoro suggerisce che tale problema sia particolarmente grave per le donne, nelle quali la presenza di osteoporosi e fratture è molto più alto che negli uomini. Sebbene questo risultato resti da confermare, è interessante osservare che già altri studi suggeriscono che l’infiammazione possa avere ruoli e meccanismi d’azione differenti nei due sessi, anche riguardo anche alle malattie cardiovascolari».

Cuore a rischio nelle donne con sindrome dell’ovaio policistico

La sindrome dell’ovaio policistico fa male al cuore: le donne fra trenta e quarant’anni che ne soffrono hanno un rischio di problemi cardiovascolari del 19 per cento più alto rispetto a chi non ha disturbi ovarici, stando a una ricerca pubblicata sull’European Journal of Preventive Cardiology . Le giovani pazienti devono perciò fare ancora più attenzione delle coetanee a pressione, colesterolo, chili di troppo: tenere sotto controllo questi fattori di rischio cardiovascolare con uno stile di vita sano, infatti, consente di ridurre significativamente il pericolo.

Malattia diffusa

La sindrome dell’ovaio policistico colpisca dal 6 al 20 per cento delle donne in età riproduttiva: fra i sintomi di questo disturbo, oltre alle tipiche cisti ovariche multiple, ci sono problemi come le irregolarità mestruali, l’eccesso di peli superflui o la perdita di capelli connessi a un aumento degli ormoni maschili, la difficoltà ad avere figli. La sindrome però si associa anche a una maggior probabilità di sovrappeso, diabete, ipertensione: Clare Oliver-Williams dell’università di Cambridge nel Regno Unito ha perciò cercato di capire se tutto questo si traduca anche in un maggior rischio di disturbi cardiovascolari e se questo pericolo persista nell’arco di tutta la vita delle donne, visto che molti dei sintomi della sindrome dell’ovaio policistico si manifestano soltanto durante il periodo fertile.

Coronavirus, guarito da oltre 4 mesi, si infetta di nuovo con un altro ceppo

Un uomo di Hong Kong guarito dal Covid-19 è stato infettato di nuovo quattro mesi e mezzo dopo essere stato contagiato la prima volta. Si tratterebbe del primo caso documentato di reinfezione umana da coronavirus. Il 33enne — si legge sull’anticipazione dell’articolo della rivista scientifica Clinical Infectious Diseases — era stato dimesso dall’ospedale dell’ex colonia britannica ad aprile, ma è risultato nuovamente positivo di ritorno dalla Spagna a Ferragosto. La notizia attende la conferma.

«Non è una ricaduta»

A quanto pare i ricercatori di Hong Kong hanno sequenziato i due virus che hanno infettato l’uomo: non sono identici e questo è segno di reinfezione. «I nostri risultati dimostrano che la sua seconda infezione è stata causata da un nuovo virus che ha acquisito di recente, piuttosto che da una prolungata diffusione virale» ha affermato il dottor Kelvin Kai-Wang To, un microbiologo clinico presso l’Università di Hong Kong. Il 33enne ha avuto solo sintomi lievi la prima volta e questa volta nessuno. Il virus che hanno sequenziato corrispondeva al ceppo circolante in Europa a luglio e agosto. Negli altri casi di reinfezione si era scoperto che piuttosto si trattava di «ricaduta» o di presenza latente del virus in profondità nei polmoni che non veniva più rilevato dal tampone, ma che in alcuni casi ricreava la malattia. I medici hanno segnalato diversi casi di presunta reinfezione, ma nessuno di questi casi è stato poi confermato. Le persone guarite conservano frammenti virali per settimane, il che può far sì che i test mostrino un risultato positivo in assenza di virus vivi. Questo caso pare differente. Il 33enne in questione nella prima malattia da Covid era risultato negativo al sierologico, quindi non aveva sviluppato anticorpi. È noto che i comuni coronavirus del raffreddore causano reinfezioni in meno di un anno, ma gli esperti avevano sperato che il nuovo coronavirus potesse comportarsi più come i suoi cugini Sars e Mers, che sembrano produrre un’immunità più duratura, di alcuni anni.

Effetti collaterali dei farmaci, nelle donne il rischio raddoppia

Per molto, troppo tempo le sperimentazioni cliniche hanno incluso fra i loro partecipanti soprattutto maschi adulti. Così oggi sappiamo bene come curarli, ma lo stesso non si può dire per le donne: meno studiate perché spesso escluse dalle ricerche, pagano il prezzo della ‘dimenticanza’ venendo sottoposte a terapie decise in base a un minor numero di dati, che quindi più spesso portano a effetti collaterali. Non a caso il doppio più frequenti al femminile, stando a una revisione degli studi pubblicata su Biology of Sex Differences.

Metabolismo diverso

Gli autori hanno passato al setaccio oltre 5mila studi in cui si valutavano terapie molto diverse fra loro, per esempio con antidepressivi, farmaci cardiovascolari, analgesici, antiepilettici e così via; i risultati mostrano che per la maggioranza degli 86 medicinali considerati esiste un ‘problema di genere’ nell’arruolamento dei partecipanti agli studi che impedisce una corretta valutazione degli effetti al femminile e facilita perciò la comparsa di eventi avversi nelle donne, una volta che i farmaci coinvolti siano prescritti sulla base di dati raccolti sul metabolismo maschile. Infatti ben 76 farmaci hanno mostrato forti differenze fra i due sessi nella farmacocinetica, ovvero nei tempi e modi con cui il principio attivo viene metabolizzato, con ripercussioni dirette sugli effetti: nelle donne per esempio le concentrazioni di farmaco in circolo sono in media più alte e serve più tempo perché siano eliminate dall’organismo, inoltre le differenze nel metabolismo dei farmaci derivano da diversità correlate al sesso e non soltanto a un peso corporeo mediamente inferiore nel sesso femminile. Non conoscere questi dati porta a usare i medicinali con minor consapevolezza: così non stupisce che per il 96 per cento dei medicinali analizzati l’eventualità di eventi avversi sia risultata maggiore nelle donne.

Mandorle «spazzine» delle arterie

Si consiglia a fine pasto, come snack, a colazione, per arricchire un piatto: la frutta secca fa bene alla salute e su questo non ci sono più dubbi. Ma le mandorle sono anche un ottimo «spazzino» anti-colesterolo: pare infatti che mangiarne un po’ ogni giorno si associ a un miglioramento della funzionalità del colesterolo «buono» Hdl, quello che setaccia i vasi per raccogliere e smaltire il colesterolo di troppo che potrebbe «intasare» le arterie favorendo l’infarto. Lo ha dimostrato su un gruppo di volontari Penny Kris-Etherton, nutrizionista dell’università della Pennsylvania, che ha voluto indagare che cosa succede al colesterolo Hdl con un consumo regolare di mandorle.

Gli effetti

«Questo tipo di frutta secca ha effetti positivi sui livelli di colesterolo in generale ma non si sapeva granché dell’azione specifica su quello Hdl, che al contrario dell’Ldl (il colesterolo “cattivo”, ndr) aiuta a ridurre il rischio cardiovascolare», ha spiegato Kris-Etherton. Per fare chiarezza, un gruppo di volontari si è sottoposto alle analisi del sangue e poi per sei settimane a una dieta che includeva 43 grammi di mandorle come snack (un poco di più, quindi, della «dose» standard che è di circa 30 grammi, pari a una ventina di mandorle); quindi, dopo aver ripetuto gli esami del sangue, gli stessi partecipanti hanno seguito una dieta identica ma mangiando un muffin alla banana come spuntino per poi sottoporsi di nuovo ai test.

Coronavirus, qual è stato il percorso riabilitativo dopo l’infezione

Chi è stato ricoverato in ospedale per Covid-19 ha avuto quasi sempre bisogno di un periodo di riabilitazione per recuperare le abilità respiratorie e motorie compromesse dalla malattia. Il paziente dimesso, soprattutto dopo un periodo in terapia intensiva, può accusare oltre alla compromissione della funzionalità polmonare anche perdita di forza e massa muscolare, disturbi cognitivi,emotivi-relazionali, disfagia (difficoltà nella deglutizione), disturbi neurologici, peggioramento delle condizioni cliniche preesistenti. Il percorso di recupero è lungo e graduale, a volte tortuoso, non sempre scontato. Da un’analisi preliminare della Simfer (Società italiana di medicina fisica e riabilitativa) su 47 strutture di degenza riabilitativa, la maggior parte dei pazienti entrati nella prima fase dell’epidemia ha sofferto a posteriori di insufficienza respiratoria di grado lieve o moderato con strutture che hanno avuto fino al 30% di casi severi e fino al 20% di casi critici.

Le richieste

«Abbiamo visto che in Lombardia — testimonia Michele Vitacca , responsabile della Pneumologia riabilitativa Ics Maugeri di Brescia — il 70% dei pazienti ancora infetti dopo le dimissioni ha avuto bisogno di essere spostato in un cosiddetto ambiente intermedio: di 1° livello per i pazienti più critici che avevano bisogno di riabilitazione respiratoria, di 2° livello per i malati meno gravi che sono stati spostati in ambienti socio assistenziali tipo RSA con una permanenza di circa 15 giorni. Dopo questo periodo intermedio, dopo la negativizzazione al tampone, i pazienti meno fragili sono stati mandati a casa mentre per gli altri (circa un 30%) è partito un nuovo ciclo di riabilitazione respiratoria, motoria e psichiatrica».

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