Archive for July 30, 2020

Vaccino coronavirus, a che punto sono oggi i 4 finalisti anti-Covid

Lo sforzo senza precedenti della comunità scientifica mondiale per arrivare a un vaccino contro Sars-CoV-2 procede a grandi passi. Sono almeno 4, su oltre 160, le aziende con candidati nella fase clinica di efficacia: AstraZeneca (azienda svedese a cui l’Italia ha prenotato 400 milioni di dosi di vaccino insieme ad altri Paesi europei), Moderna (che collabora con i National Institutes of Health), BioNTech/Pfizer (accordo industriale Usa-Germania) e CanSino (società cinese). A questi si aggiungerà un vaccino sviluppato in Russia dall’Istituto di ricerca Gamaleya, new entry nella lista dei candidati di cui si sta valutando l’efficacia clinica.

A che punto sono arrivati gli studi e i test?
Globalmente 25 gruppi di ricerca si trovano nella fase di sviluppo clinico, quella in cui il vaccino viene somministrato a esseri umani. Gli studi più avanzati, descritti sopra, sono appena entrati o stanno entrando nella fase 3, che serve a dimostrare l’efficacia e richiede diversi mesi, se non anni, di lavoro. Perché vi sia l’approvazione dell’Agenzia regolatoria di riferimento, si deve dimostrare, con uno studio su decine di migliaia di persone sane, che il farmaco è in grado di prevenire l’infezione o almeno le forme gravi di malattia, senza causare effetti collaterali di rilievo.

Coronavirus, corsa al vaccino: quello di Moderna funziona sui macachi

Buoni risultati dal vaccino americano, sviluppato dall’azienda americana Moderna insieme all’Istituto nazionale per le malattie infettive (Niaid) diretto da Anthony Fauci. Sperimentato nei macachi, ha indotto la produzione di anticorpi neutralizzanti, una rapida protezione delle vie respiratorie e protetto gli animali da lesioni polmonari, secondo i dati pubblicati sul New England Journal of Medicine. Il 27 luglio i National Institute of Health, di cui il Niaid fa parte, hanno annunciato l’avvio della fase 3 della sperimentazione in 89 siti americani, su circa 30mila volontari sani.

Marcata risposta immunitaria

Nella fase 2 il gruppo di ricercatori guidato da Barney Graham ha somministrato ai macachi due dosi di vaccino, in quantità diverse, quindi gli animali sono stati infettati con il virus. I test hanno evidenziato la capacità del vaccino (basato su Rna modificato) di indurre una marcata risposta immunitaria, con la produzione di anticorpi neutralizzanti in grado di contrastare Sars-CoV-2. «Oltre a questo, si è visto che il vaccino ha indotto la risposta delle cellule linfocitiche, che aggrediscono il virus e aiutano a produrre gli anticorpi, e che protegge da lesioni polmonari. Si tratta di dati positivi, il vaccino sembra funzionare bene — ha detto all’AnsaGiorgio Palù, past president della Società europea di virologia e docente emerito all’Università di Padova —. È bene però ricordare che, se anche questo vaccino fosse disponibile per novembre, da noi non verrebbe comunque somministrato in larga scala. Sarà dato prima ai soggetti più a rischio, come medici e infermieri, in via sperimentale, come fatto con il vaccino per Ebola. Perché arrivi a tutti bisognerà aspettare altri 2-3 anni».

Coronavirus in Europa, cosa succede e che cosa dovrebbe fare l’Italia

Qual è la situazione epidemiologica in Europa con i nuovi incrementi dei casi?
«È abbastanza variegata e negli ultimi quattordici giorni ci sono stati aumenti notevoli (soprattutto se rapportati alla popolazione residente) come quelli di Romania, Spagna, Bulgaria. La crescita dei casi potrebbe essere dovuta da un lato alla maggior capacità di accertare le infezioni con un aumentato numero di tamponi effettuati, dall’altro al virus che continua a circolare e coglie le occasioni per trasmettersi tra le persone», risponde Stefania Salmaso, epidemiologa in precedenza a capo del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss).

Siamo di fronte alla «seconda ondata» europea?
«Giusto ieri (martedì, ndr) l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha specificato “non vi aspettate ondate”: questo virus non è come l’influenza, legato alla stagionalità, e, vedendo come si diffonde nel mondo, è assolutamente verosimile. È un’infezione con cui dovremo convivere ancora a lungo: la circolazione virale continua in modo più o meno silente, il numero di infezioni rilevate è direttamente proporzionale alla capacità di fare test, ma il virus non è meno pericoloso, se non per il fatto che al primo impatto parecchi soggetti suscettibili e fragili hanno pagato il conto più elevato in termini di casi severi e decessi».

È giusto limitare gli ingressi e gli spostamenti tra Stati?
«Sono misure che non arrestano la circolazione del virus: è un tentativo di rallentarne lo spostamento da zone ad alta incidenza a zone meno toccate. Provvedimenti simili raramente sono stati efficaci sul lungo periodo: all’inizio della pandemia guardavamo alla Cina e non ci siamo accorti che il virus era già in Lombardia. Certo con Paesi come la Romania (con cui abbiamo un scambio continuo di lavoratori) quantomeno vanno rispettate norme di quarantena per chi rientra al lavoro in Italia».

Quali sono gli errori che andrebbero evitati?
«In questo momento l’errore più grosso che possiamo fare è non potenziare la capacità di risposta della sanità pubblica imparando da quello che è successo: incremento della capacità diagnostica, tracciamento dei contatti, indagini e analisi delle modalità di contagio e calcolo dei rischi associati alle diverse esposizioni. Le misure di prevenzione devono arrivare dove servono».

Quali sono i comportamenti collettivi su cui puntare il dito?
«Sicuramente gli assembramenti in contesti chiusi sono una possibile fonte di rischio aumentato. Bisogna poi mantenere le precauzioni ormai conosciute (lavaggio delle mani, mascherine e distanza di sicurezza) perché sappiamo che il rischio zero non esiste».

Come evitare che anche in Italia i contagi superino la soglia di guardia?
«Adesso non abbiamo più scuse e non ci possiamo più far cogliere impreparati: dobbiamo capire quali sono i contesti più suscettibili al rischio maggiore di trasmissione e intervenire con la prevenzione mirata».

Sul Corriere Salute: la steatosi epatica (senza sintomi) può rovinare il cuore

Pubblichiamo in anteprima una parte dell’articolo di apertura del nuovo «Corriere Salute». Potete leggere il testo integrale sul numero in edicola gratis giovedì 30 luglio oppure in Pdf sulla Digital Edition del «Corriere della Sera».

Uno è un organo silenzioso a cui non badiamo quasi mai, che fa il suo dovere senza che ce ne accorgiamo. All’altro invece vanno molti dei nostri pensieri: il suo battito si percepisce benissimo e ci preoccupiamo se avvertiamo anomalie temendo che possa avere qualche guaio all’improvviso, perché sappiamo che se smette di pompare sangue in circolo siamo spacciati. Fegato e cuore a prima vista hanno perciò ben poco in comune, eppure il loro (e nostro) benessere è legato a doppio filo e se uno dei due non è in buona salute, pure l’altro può avere qualche problema. Pochi lo sanno, ma studi scientifici ed esperienza clinica lo hanno ormai stabilito con certezza: l’ultima conferma arriva da uno studio dell’Iowa State University pubblicato su Nature Communications, che grazie a esperimenti su animali di laboratorio ha dimostrato come «ringiovanire» il fegato intervenendo su geni fondamentali per la funzione epatica riporti indietro anche le lancette dell’invecchiamento cardiaco. Gli autori sperano di trovare il modo per far lo stesso anche nell’uomo, ma nell’attesa della pillola che ringiovanirà i due organi dobbiamo occuparci del benessere di entrambi e specialmente del più negletto dei due, il fegato.

Controlli post tumore rimandati, quanto rischiano davvero i pazienti?

La mia mamma ha 74 anni e gode di ottima salute, nonostante il tumore al seno diagnosticatole nel 2016, che per fortuna è stato preso in tempo e curato con solo chirurgia e, a seguire, terapia ormonale per precauzione. A causa del coronavirus, però, il suo controllo previsto a metà marzo è saltato: non ha fatto visita né esami che sono stati fissati a metà luglio. Ho sentito parlare in televisione dei possibili danni che i malati di cancro avranno a causa di questi ritardi: ci dobbiamo preoccupare?

Risponde Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e responsabile dell’Oncologia Medica di Humanitas Gavazzeni Bergamo

Australia: centinaia di decessi per influenza evitati, grazie alle misure anti Covid

Il distanziamento, l’uso delle mascherine e l’igiene delle mani potrebbero contribuire a frenare in parte l’influenza del prossimo inverno. Queste misure, conosciute per l’efficacia nelle malattie infettive e già studiate per le influenze stagionali, solitamente non sono diffuse tra la gente come invece succede (anche se a macchia di leopardo) da qualche mese con l’avvento del Covid-19. L’adozione da parte di fette importanti di popolazione dei blocchi e del distanziamento sociale in Australia, hanno già provocato benefici effetti proprio sull’influenza (quella che da noi arriverà in autunno).

Da 132mila a 21mila contagi

La stagione influenzale australiana raggiunge il massimo durante i mesi invernali, da giugno ad agosto, ma i casi spesso iniziano a svilupparsi intorno a gennaio, quando i viaggiatori dell’emisfero settentrionale portano il virus nel Paese australe. Ebbene pare che quest’anno l’Australia abbia iniziato con tassi di influenza relativamente elevati: 6.962 casi di influenza confermati in laboratorio a gennaio e 7.161 a febbraio. Tuttavia, da allora i casi sono precipitati: 5.884 registrati a marzo e solo 229 ad aprile, rispetto ai 18.705 di aprile 2019. Come scrivono alcuni siti di notizie locali, il sistema di sorveglianza australiana FluTracking ha monitorato in totale, da gennaio a fine giugno 2019, più di 132.000 persone cui è stata diagnosticata l’influenza. Quest’anno sono state 21.000. La forte riduzione dei casi è probabilmente dovuta alla decisione dell’Australia di chiudere i confini il 20 marzo e vietare gli assembramenti il 16 marzo. Il 23 marzo anche pub, ristoranti, palestre, cinema e altre attività non essenziali sono state costrette a chiudere. Inoltre, pochissimi bambini frequentano la scuola da metà marzo.

Giornata epatiti, l’appello: riprendere i trattamenti, guardiamo oltre Covid

Il 28 luglio si celebra la Giornata mondiale delle epatiti. Un’occasione importante per fare il punto sulla lotta a questi virus, che al contrario di Sars-CoV-2 sono ben conosciuti da oltre 30 anni e potenzialmente curabili. L’attenzione è rivolta soprattutto alle epatiti B e C (la A e la E sono meno preoccupanti, anche se non vanno sottovalutate) che possono avere effetti particolarmente gravi, talvolta letali. Se cronicizzano, provocano complicanze come la cirrosi e il tumore epatico. Tuttavia, l’epatite B può essere prevenuta con il vaccino e l’epatite C curata con farmaci efficaci e risolutivi. Per questo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha fissato l’obiettivo di eliminazione dell’epatite C entro il 2030, un risultato possibile soprattutto grazie ai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta, che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali.

Il problema del sommerso

Gli sforzi contro Covid hanno lasciato indietro terapie, prevenzione e diagnostica di tante patologie, mettendo anche in discussione quanto fatto dall’Italia nell’eliminazione dell’epatite C. Per recuperare l’attenzione sul tema, in occasione della Giornata mondiale, istituzioni, società scientifiche, specialisti, associazioni dei pazienti, mondo dell’impresa hanno organizzato una tavola rotonda in diretta streaming: «Hbv e Hcv. Quale ruolo potrà ricoprire l’Italia? Tra cronaca, attualità e aggiornamento, ipotesi e aspettative concrete di politica sanitaria e ricerca medico scientifica». Prima del lockdown, hanno riflettuto gli esperti, l’Italia aveva discrete possibilità di perseguire l’obiettivo di eliminazione dell’epatite C entro il 2030, pur avendo già un serio problema, rappresentato dalla mancata azione per l’emersione del “sommerso”, valutato ancora in centinaia di migliaia di persone, a cui si aggiungono i soggetti che, pur consapevoli del loro stato infetto, non hanno ancora potuto o voluto accedere alle terapie.

Coronavirus, identificati 21 farmaci in grado di bloccarne la replicazione


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Coronavirus, il punto sui farmaci: studi in corso e dati scientifici

Gli studi clinici in Italia


Opzioni a breve termine

Facendo uno screening tra le 12mila molecole presenti nella banca dati, ne sono state individuate 100 con attività antivirale, confermata nei test di laboratorio. Di queste, 21 si sono dimostrate essere efficaci nel bloccare la replicazione del coronavirus, in dosi non pericolose per l’uomo. «Il Remdesivir ha dimostrato con successo di abbreviare i tempi di recupero nei pazienti ricoverati, ma il farmaco non funziona in tutti i casi — afferma Sumit Chanda, autore senior e immunologo al Sanford Burnham Prebys Medical Discovery Institute di La Jolla (Usa) —. Questo studio espande significativamente le possibili opzioni terapeutiche, soprattutto perché molte delle molecole hanno già dati di sicurezza clinica nell’uomo. Sulla base della nostra analisi, clofazimina, hanfangchin A, apilimod e ONO 5334 rappresentano le migliori opzioni a breve termine». I ricercatori stanno attualmente testando tutti i 21 composti in modelli animali e «mini polmoni», organoidi che imitano il tessuto umano.

Coronavirus, in Italia dati migliori che nel resto d’Europa: come mai?

Poco più di dodicimila positivi, di cui 735 ricoverati e 44 in terapia intensiva. Cinque morti in un giorno, 255 nuovi contagi. I dati italiani consentirebbero un certo ottimismo sull’andamento dell’epidemia, ma gli appelli alla prudenza sono quotidiani, sia per il rischio di un peggioramento della situazione, sia per quel che accade in altri Paesi, anche vicini a noi. Tra i “pessimisti” c’è Andrea Crisanti, professore ordinario di Microbiologia all’Università di Padova, che in un’intervista al Messaggero ha detto: «Viene da pensare che avremo problemi con il coronavirus non a ottobre-novembre, come si era ipotizzato, ma già alla fine di agosto». Non solo: l’esperto ritiene che sarebbe utile conoscere le ragioni della differenza dei nostri dati con quelli degli altri Paesi (per esempio Spagna, Francia, Romania) e azzarda: «Forse non stiamo facendo i tamponi alle persone giuste».

Controllare gli spostamenti

Certo assistiamo alla nascita di piccoli focolai in diversi punti della Penisola, ma finora la situazione appare ampiamente sotto controllo. Lo conferma Alessandro Vespignani, direttore del Laboratory for the modeling of biological and Socio-technical Systems alla Northeastern University di Boston, in un’intervista al Corriere: «In Italia i nuovi casi sono a livello endemico, sotto controllo. Il Sistema sanitario adesso mi pare in grado di gestire il tracciamento tradizionale dei positivi, isolando gli eventuali focolai. Certo, bisogna restare assolutamente vigili e mantenere le precauzioni adottate. Non credo servano nuove misure». Secondo il fisico informatico l’impennata dei casi in alcuni Paesi europei suggerisce però «prudenza nel controllo degli spostamenti delle persone» ed è «l’ennesima dimostrazione che il circolo virtuoso non si mantiene da solo».

«Fine della quarantena? Un tampone negativo o 7 giorni senza sintomi»

Professor Clerici, è ancora praticabile la regola del doppio tampone di controllo per “liberare” dall’isolamento persone che sono positive da mesi?
«In questa fase penso che sarebbe ora di optare per un solo tampone singolo negativo. Basterebbe per limitare i rischi». Mario Clerici è è professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi.

Come mandare in giro persone che infettano? Per quanto tempo si è contagiosi? Alcuni studi dicono principalmente all’inizio della malattia.
«Come in ogni tipo di virus, il contagio è in funzione di quanto virus si ha in circolo e questa quantità è massima nelle prime fasi della malattia, poi diminuisce. C’è la possibilità che i debolmente positivi non siano più in grado di infettare, come accade con altri tipi di patologie».

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