Professor Remuzzi, siamo in presenza di tre epidemie diverse, al nord, centro e sud Italia?
«È più corretto parlare di tre diverse manifestazioni dell’epidemia. Non solo il solo ad avere questa opinione: la condivido per esempio con Donato Greco, grandissimo esperto di epidemie. Quando è stata annunciata la chiusura della Lombardia, moltissime persone sono partite per il Sud, oltre 800 solo da Milano — sottolinea Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo —. Ma nelle regioni meridionali i casi di Covid sono stati estremamente limitati. Come si spiega? Non solo: in Abruzzo, Umbria, Sardegna, Molise, Basilicata ci sono oggi zero contagi. Il motivo non può essere ricondotto solo alle buone pratiche di distanziamento o alla fortuna, anche se certamente il dramma avvenuto in Lombardia è stato di insegnamento per tutti. Credo che l’80% delle persone, in tutte le regioni italiane, rispetti le tre regole anti-Covid, le uniche realmente efficaci: lavaggio frequente delle mani, distanziamento interpersonale di almeno un metro e uso della mascherina. Non può essere solo questo l’elemento che ha fatto la differenza: bisognerebbe riuscire a tenere insieme sorveglianza delle malattie, esperienza delle precedenti epidemie e raccolta sistematica dei dati. E c’è anche il rapporto, tra uomo, virus e ambiente che potrebbe essere diverso tra Nord e Sud. Riuscire a capire tutto questo ci aiuterà di fronte ai rischi di nuovi focolai o di una recrudescenza dell’epidemia nei mesi invernali».
Che cosa sappiamo oggi del virus e della sua capacità di trasmissione?
«L’epidemia attacca i cosiddetti cluster, gruppi di persone che vivono in luoghi chiusi e hanno contatti ravvicinati: penso alle famiglie, alle Rsa, agli ospedali. Lì c’è stata l’esplosione dei contagi, grazie anche ai cosiddetti “superdiffusori”, persone in grado di trasmettere il virus a molti altri soggetti. In Lombardia ci sono stati pochi cluster e da lì è nato il disastro a cui abbiamo assistito. Lo stesso è accaduto in Cina, dove sono stati individuati 318 gruppi di forte trasmissione: uno solo si è sviluppato nell’ambiente esterno, tutti gli altri in luoghi chiusi. Il Giappone si è salvato dalla furia del virus impedendo alle persone di stare a stretto contatto in spazi ristretti. Qui c’è un paradosso. Se ci rifacciamo a questi modelli forse si riesce a capire anche perché in quelle località dove c’è stata più attenzione agli anziani — luoghi di aggregazione come università per gli anziani, teatro, attività ricreative (come a Nembro, per esempio) — la diffusione dell’epidemia sia stata così violenta. Insomma una tragedia che nasce paradossalmente dall’aver saputo dare agli anziani momenti di attività culturale e svago».