Archive for July 30, 2019

Arriva l’«immunità» per chiunque utilizzi i defibrillatori

Obbligatori anche su aerei e treni, navi e bus, in aeroporti e scuole

Riguardo all’approvazione da parte della Camera del disegno di legge sulla riforma del primo soccorso e sull’utilizzo dei defibrillatori, Andrea Scapigliati, presidente di IRC, Italian Resuscitation Council e dirigente medico dell’Unità operativa di cardioanestesia e terapia intensiva cardiochirurgica della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli, osserva: «La legge tiene conto di molte delle proposte che la nostra associazione aveva fatto a giugno in Commissione Affari Sociali, come la tutela legale del soccorritore, la maggiore diffusione dei defibrillatori semiautomatici, DAE, l’introduzione a scuola della formazione obbligatoria sulla rianimazione cardiopolmonare, la creazione di un’applicazione per la geolocalizzazione dei DAE, l’obbligo per il 112/118 di fornire alle persone che hanno segnalato l’emergenza le istruzioni telefoniche per riconoscere l’arresto cardiaco, fare il massaggio cardiaco e utilizzare il DAE. Sono elementi essenziali per favorire i soccorsi da parte di chi assiste a un arresto cardiaco e, di conseguenza, la sopravvivenza delle persone che ne sono colpite. Auspichiamo un rapido iter approvativo della legge e una sua imminente entrata in vigore. Ringraziamo i due relatori della legge On. Mulè e Lapia e i loro colleghi che hanno presentato proposte a riguardo per il corale lavoro svolto». «Una legge —commenta Giorgio Mulè, di Forza Italia, relatore del testo-— che sfida il destino, guarda con coraggio la morte e gli impone di ripiegare. L’abbiamo battezzata «Salva Vita» non a caso. Il percorso di questa legge è stato virtuoso e ha visto la partecipazione attiva e matura di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, gettando le basi di una legislazione all’avanguardia, con un solo obiettivo: fare presto e bene».

Light è sempre meglio? A sorpresa con latte e formaggi non è detto

«Light è sempre meglio?». A sorpresa con latte e formaggi non è detto: alcune ricerche mostrano infatti che i prodotti lattiero caseari ricchi di grassi sono almeno altrettanto salutari delle controparti «magre». Inoltre i prodotti interi si sono dimostrati più protettivi di quelli senza o pochi grassi. E, dato non trascurabile, in tutti gli studi osservazionali presi in considerazione, le persone che consumavano latticini interi erano anche le più snelle. È questo uno dei temi di cui si parla sul Corriere Salute oggi in edicola gratis con il Corriere della Sera.

Però è anche vero che allo stato attuale dei fatti mediamente abbiamo tutti una dieta ricca di grassi, soprattutto saturi; se quindi ne risparmiamo un po’, da qualunque fonte derivino, è meglio.

Tumori: in Europa nel 2019 i morti saranno un milione e mezzo

Tumore al seno, la mortalità diminuisce

Il carcinoma mammario resta il secondo tipo di cancro che causa il maggior numero di decessi per le donne in Europa (al primo posto c’è quello al polmone), ed è ancora il primo in Italia. E il numero complessivo di morti è destinato a non diminuire sostanzialmente per l’invecchiamento generale della popolazione, nonostante i notevoli progressi nella diagnosi e terapia. «Nel 2014 sono stati 92mila i decessi per tumore al seno e nel 2019 ne prevediamo 92.800 – dice La Vecchia -. Questo significa che il carico di malattia non è destinato a diminuire, con relativi costi per la società e per i sistemi sanitari. Mentre i miglioramenti ottenuti (in tutti Paesi della Ue con la sola eccezione della Polonia) sono dovuti ai progressi nelle terapie e al miglioramento delle diagnosi precoce grazie agli screening con mammografia: non a caso i risultati migliori riguardano proprio la fascia di popolazione (50-69enni) generalmente invitata a fare l’esame (gratuitamente in Italia). Le statistiche prevedono una diminuzione dei tassi di mortalità del 16 per cento in questa fascia d’età e soltanto un calo del 6 per cento nelle 70-79enni».

Allarme Onu: 20 milioni di bambini non vaccinati per morbillo e tetano

I vaccini sono l’arma più potente contro le epidemie ma per garantire l’immunità è necessario che il 95% della popolazione sia protetta. Nel 2018 la copertura vaccinale per difterite, tetano, pertosse (DTP3) e morbillo a livello globale si è fermata all’86%: un numero elevato ma non sufficiente. La maggior parte dei minori non vaccinati vive nei Paesi più poveri o colpiti da conflitti. Quasi la metà di loro vive in appena 16 paesi: Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Etiopia, Haiti, Iraq, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria e Yemen. «È inaccettabile, ma sono spesso coloro più a rischio – i più poveri, i più emarginati, coloro che sono colpiti da conflitti o costretti ad abbandonare le proprie case – ad esserne privati”, ha dichiarato il dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inoltre, se questi bambini si ammalano, hanno anche minori probabilità di accedere alle cure. A destare allarme il fatto che nel 2018, nel mondo, sono stati segnalati quasi 350.000 casi di morbillo, più che raddoppiati rispetto al 2017. Mappare le zone in cui si verifica il contagio offre anche un’indicazione sulle priorità di intervento. «Il morbillo è talmente contagioso che lo sviluppo di un’epidemia indica quali comunità non stanno vaccinando» ha detto Henrietta Fore, Direttore generale dell’UNICEF. «Le cause possono esser mancanza di accesso, dei costi o, in alcuni luoghi, della noncuranza, ma dobbiamo compiere ogni sforzo per immunizzare ogni bambino».

Aree a rischio

L’Ucraina è in testa a una lista di Paesi con il più alto tasso di incidenza del morbillo segnalato nel 2018. Oggi il Paese è riuscito a vaccinare oltre il 90% dei suoi bambini (sotto 1 anno di età), la copertura è stata bassa per diversi anni, lasciando un gran numero di bambini più grandi e di adulti a rischio. Questo dimostra come una bassa copertura nel tempo o comunità separate di persone non vaccinate possano scatenare focolai mortali. Gli Stati Uniti sono in cima alla classifica dei Paesi ad alto reddito con il maggior numero di bambini che non hanno ricevuto la prima dose di vaccino contro il morbillo nel 2018 (più di 311.000). Seguono Francia e Regno Unito con, rispettivamente, oltre 72.000 e 61.000 bambini non vaccinati nello stesso periodo. L’Italia è al quinto posto (93% di copertura) con 31.922 bambini che non hanno ricevuto la prima dose di vaccino contro il morbillo.

L’impegno

L’unicef Italia nel settembre 2018 ha raccolto 20mila adesioni attraverso una petizione con cui chiedeva a Governo e Parlamento impegni precisi per migliorare la copertura delle vaccinazioni in età pediatrica in Italia e nel mondo. Il Comitato ONU sui diritti dell’infanzia ha recentemente raccomandato al nostro Paese di aumentare la consapevolezza dell’importanza delle vaccinazioni e assicurare una copertura immunitaria completa contro le malattie infantili.

Tiroide, i segni e i problemi che svelano se non funziona bene

Gli anticorpi

Sì perché i noduli non sono l’unico guaio: la tiroide può avere anche problemi funzionali, ovvero produrre ormoni in quantità scarsa o al contrario in eccesso. Il primo caso è l’ipotiroidismo, molto comune (si parla del 5-6 per cento della popolazione generale, con picchi di oltre il 10 per cento nelle donne dopo i 60 anni) ma subdolo e difficile da riconoscere: i sintomi sono poco specifici, in più spesso ci si abitua pian piano a tollerarli. A fastidi come stanchezza, aumento di peso, difficoltà di concentrazione o sonnolenza spesso non si dà importanza, così l’ipotiroidismo progredisce e può dare problemi sempre più evidenti, come la pelle che diventa pallida, secca e fredda, i capelli opachi e fragili o le unghie che crescono poco, hanno striature longitudinali e trasversali e si spezzano con facilità. «L’ipotiroidismo ha una base autoimmune, cioè è provocata da anticorpi diretti contro componenti della tiroide: è il caso della tiroidite di Hashimoto, frequente nelle donne», specifica Vitti. «Molte forme restano subcliniche e non danno grossi disturbi, se i sintomi sono fastidiosi e la carenza ormonale è consistente diventa però necessaria una terapia, che è tuttavia relativamente semplice: si tratta infatti di somministrare gli ormoni tiroidei che scarseggiano e oggi ci sono molte formulazioni, dalle capsule molli alle fiale, fra cui scegliere per una cura su misura». Nel caso dell’ipertiroidismo, che è molto meno frequente, i problemi sono di segno diametralmente opposto: l’eccesso di ormoni tiroidei si fa sentire con tachicardia, perdita di peso, tremori, disturbi del sonno, nervosismo, intolleranza al caldo; anche in questo caso osservare cute e chioma aiuta, perché la pelle è arrossata, calda, umida e si suda molto da mani e piedi, nel 20-40 per cento dei casi i capelli possono cadere e assottigliarsi, le unghie si sfaldano. «Le cause di ipertiroidismo sono principalmente due: la prima è il morbo di Basedow, una malattia autoimmune che ha il suo picco massimo nelle donne fra i 20 e i 40 anni (la prevalenza è del 2-3 per cento, fra gli uomini è otto volte meno frequente, ndr). È provocata da anticorpi che imitano l’effetto dell’ormone tireostimolante, portando la ghiandola a un’iperproduzione di ormoni; i sintomi sono eclatanti, in una su cinque compaiono anche il gozzo e il caratteristico esoftalmo (in cui gli occhi paiono uscire dalle orbite, ndr)», spiega Vitti. «La seconda causa di ipertiroidismo è il gozzo nodulare tipico degli anziani che sono stati esposti a lungo a carenza di iodio: dopo anni e anni di deficit la tiroide forma noduli sempre più grandi che producono ormoni in eccesso, senza sottostare più alla regolazione da parte dell’ormone tireotropo (o TSH, prodotto dall’ipofisi nel cervello per modulare l’attività della tiroide, ndr). Spesso il problema non dà sintomi, salvo poi portare ad aritmie: il rischio aumenta e si può arrivare alla pericolosa fibrillazione atriale».

Lo zucchero nelle bevande può far salire il rischio di tumore: i risultato di un vasto studio francese

Ma perché gli zuccheri farebbero venire il cancro?

«Il meccanismo invocato per spiegare queste correlazioni è legato ai picchi di produzione di insulina e di “insuline-like-growth factor” (fattore di crescita simile all’insulina) che fanno seguito al rapido passaggio di elevate quantità di zucchero all’interno del torrente circolatorio, i quali fungono da possibili induttori di meccanismi cancerogenici – dice Bordonaro -. Il consumo eccessivo di il zuccheri “liberi” e a rapido assorbimento (presenti in bibite zuccherate o contenuti in cibi privi di fibre e altamente raffinati) è legato anche con il rischio di contrarre obesità, essendo i picchi insulinici seguiti da riduzione dei livelli di zucchero nel sangue che dà luogo a una immediata ricomparsa dello stimolo della fame. E chili di troppo e obesità rappresentano un fattore di rischio per oltre una decina di tumori (esofago, seno, fegato, stomaco, rene, pancreas, colon-retto, vescica e utero)». A tal proposito è bene anche ricordare che drink senza zuccheri e «diet» non possono essere considerati «dietetici»: soft drink, bevande dal sapore fruttato e bibite energetiche, come tutte quelle spesso utilizzate da chi fa sport, hanno un mercato ampissimo. Le bevande fruttate, dolci, con le bollicine sono create soprattutto per i ragazzi, perché incontrano di più il loro gusto e sono sempre più diffuse fra i teenager, ignari di come il loro consumo porti molte calorie e pochi nutrienti.

I caregiver in Italia: eroi invisibili con pochi diritti e a volte troppo giovani

Pubblichiamo in anteprima una parte dell’articolo del numero del Corriere Salute in edicola gratis giovedì che parla del ruolo dei caregiver nel nostro Paese , persone che non sono «volontari» ma hanno fatto una scelta d’amore facendo risparmiare lo Stato e che ora chiedono diritto al riposo, alla salute, alle protezioni assistenziali, previdenziali e assicurative. Nel dossier anche un focus sui caregiver giovani, spesso sono ragazze che si occupano delle nonne: i problemi e i rischi, dal bullismo al rendimento scolastico in picchiata all’insorgere di problemi psicologici.
Potete leggere l’articolo integrale sul numero in edicola gratis giovedì 11 luglio oppure in Pdf sulla Digital Edition del Corriere della Sera.

Marina Cometto, 70 anni, assiste sua figlia con una grave disabilità cognitiva e motoria da quando è nata, 46 anni fa. «Claudia ha bisogno di assistenza continua per le più semplici attività quotidiane come mangiare, lavarsi, prendere le medicine, devo capire se ha bisogno di essere aspirata, cosa le fa male se si lamenta» racconta. «Ho scelto di prendermi cura di lei e non ricoverarla in istituto rinunciando al lavoro; non me ne pento e lo rifarei. Ho sostituito lo Stato nelle sue funzioni, facendogli risparmiare denaro: oltre a essere mamma, sono infermiera, insegnante, assistente; ora che sono anziana, con problemi di salute, senza diritto a una pensione, vorrei che almeno riconoscesse il mio impegno e quello di tanti caregiver, e che garantisse i servizi necessari».

Quando i depressi sono adolescenti

Noa ha voluto morire, a 17 anni. Tutt’altro che un’eutanasia. Piuttosto una discesa negli inferi di un dolore irriducibile. Pagine girate in fretta quelle di giornale con la fotografia della ragazza olandese. Magari con un senso di colpa sottotraccia. Difficile da reggere il suo sguardo. Contro natura accettare ciò che più contro natura non potrebbe essere: la vita che si nega nel momento del suo pieno sbocciare a se stessa. «Eppure, purtroppo, fra i giovani è proprio la fascia di età fra i 16 e i 18 anni è quella in cui si verificano più spesso gesti di autolesionismo, che nei casi più estremi arrivano al suicidio», commenta Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano. «In parte ciò è dovuto al fatto che in questo periodo della vita sono più facili gesti dettati da impulsività».

Che però non pare il caso di Noa, che, stando a quanto si è appreso, non ha scelto d’improvviso di lascarsi morire.
«Certo, se da un lato l’impulsività, specie nei maschi, può essere un detonatore, è vero però che le cosiddette “condotte suicidarie” sono spesso precedute da comportamenti che avvicinano progressivamente al gesto estremo: si parte da atti autolesionistici relativamente poco incisivi, seguiti da altri più gravi, poi da pensieri suicidari, quindi da ideazioni suicidarie (cioè riflettere su come si potrebbe farlo), fino ai tentativi di suicidio veri e propri».

Noa è arrivata a questo punto perché affetta da una grave forma di depressione?
«Possiamo solo supporlo. Le ripetute violenze subite durante le fasi di sviluppo più delicate le hanno fatto sperimentare una profonda violazione del corpo e secondariamente una serie di comportamenti, appunto, autolesionisti, compresa una gravissima anoressia».

Le violenze subite da Noa sono insopportabili anche solo da ammettere, tuttavia la cronaca non lesina casi di sofferenze paragonabili che però non hanno lo stesso esito. Perché Noa non ce l’ha fatta e altre sì?
«Molte persone sopravvivono e in qualche modo convivono con esperienze terribili», chiarisce Cristina Colombo , responsabile dell’Unità di Psichiatria all’Ospedale San Raffaele di Milano. «Esiste una predisposizione genetica per la patologia psichica e quando intervengono elementi stressanti è più facile che essa si sviluppi. C’è chi è più fragile di altri e allora è più probabile che determinati eventi slatentizzino, per esempio, una depressione grave».

Come capire se un ragazzo (o un adulto) corre questo genere di rischio?
«La ricorrenza di casi di depressione in famiglia è un elemento è un fattore di rischio. Su questa si può innestare come possibile spia di un disagio psichico una marcata fragilità nelle relazioni sociali. Per esempio una sofferenza sproporzionata sul versante scolastico, sia nei rapporti con i compagni sia con gli insegnanti, un’incapacità di gestire in modo ragionevole un fallimento, come per esempio una bocciatura. Ovviamente senza fare allarmismi: nella maggior parte dei casi si tratta solo di ragazzi timidi, se però questi tratti caratteriali eccedono francamente la normalità e c’è una predisposizione familiare alla depressione allora può essere il caso di drizzare le antenne».

Ci sono segnali psicobiologici che possono segnalare una particolare vulnerabilità psichica?
«L’appetito e il sonno alterati. I disturbi del comportamento alimentare sono facilmente messi in relazione a una sofferenza psicologica, mentre lo è meno la qualità del sonno. Non parliamo dei ragazzi che non vogliono andare mai a dormire perché desiderano stare svegli fino a tardi: non è sano ma nemmeno strano. Il problema si pone quando i giovani vorrebbero dormire ma non ci riescono, oppure si svegliano spesso, o, ancora, hanno di frequente incubi».

Che cosa bisogna fare in questi casi? Portare i ragazzi da uno specialista? «Si deve usare una certa prudenza prima di fare questo passo. L’opzione si pone quando c’è qualche sintomo vero e proprio, per esempio di depressione. Se è vero che non intervenire quando è necessario può essere un errore grave perché una patologia psichiatrica non curata a questa età rischia di condizionare molto la vita futura, è vero anche che può essere sbagliato medicalizzare eccessivamente quello che potrebbe essere un momento di passaggio evolutivo naturale».

La depressione negli adolescenti è davvero aumentata o è solo una sensazione legata all’amplificazione mediatica?
«C’è un aumento di diagnosi perché c’è una maggiore capacità di riconoscerla» spiega Mencacci, «ma va detto che molti casi di autolesionismo sfuggono alle statistiche perché negati o celati, quindi penso si possa dire che l’incremento è reale».

Quali sono i motivi?
«Se ne possono ipotizzare diversi, fra cui la maggiore diffusione delle sostanze di abuso, o il fenomeno del binge drinking nel fine settimana o la sempre più frequente alterazione del ritmo sonno-veglia» chiarisce Mencacci. «Per quest’ultimo aspetto una responsabilità ce l’ha anche la diffusione dei tablet e dei cellulari, che, usati di sera, con la loro luce blu alterano il funzionamento del nostro orologio biologico» aggiunge Colombo. «Per limitare i danni esistono filtri da applicare sugli schermi o occhiali con lenti apposite, assolutamente consigliabili, specie per i giovanissimi».

Può contribuire anche la diffusione dei social-network?
«I social network stanno favorendo una riduzione delle competenze affettive e di elaborazione linguistica. Assistiamo a un’esplosione di emotività. La cifra delle comunicazioni sui social ormai è sempre più spesso la sfida, non il confronto. Il linguaggio si è fatto più superficiale, semplificatorio, duro, cattivo e questo può incidere su una personalità fragile e diventare uno dei fattori di slatentizzazione di una patologia psichica».

Come si cura una depressione in un ragazzo?
«La diagnosi di depressione esige il riscontro di una serie di caratteristiche precise (tempo e durata di una serie di sintomi, ndr) e non va confusa con una semplice tristezza, ancorché profonda» dice Cristina Colombo. «Una volta che si sia accertato che ci si trovi di fronte a una vera depressione la psicoterapia può anche essere d’aiuto nei casi lievi, ma il trattamento nelle forme severe è farmacologico proprio per scongiurare il rischio suicidario. È importante in questi casi affrontare in modo deciso la situazione perché i giovanissimi devono capire che una volta chiuso l’episodio la sua vita sarà normale e non avrà più bisogno di un supporto psicologico».

Ma si possono usare gli antidepressivi su ragazzi così giovani?
«Sì, ci sono diverse opzioni» spiega Giuseppe Maina, ordinario di Psichiatria all’università di Torino. «Bisogna vedere di che tipo di depressione si tratta e scegliere di conseguenza la cura più adatta. Per esempio una depressione secondaria, cioè legata a un’altra patologia, per esempio un ipotiroidismo, va gestita prima di tutto risolvendo il problema di base. Negli altri casi bisogna fare alcune distinzioni. Per un disturbo bipolare, cioè un’alternanza di fasi depressive e di “esaltazione” si usano soprattutto farmaci stabilizzatori dell’umore. Nelle depressioni unipolari moderate o gravi ci sono medicinali che si possono adottare per i giovani. La scelta cade su alcune molecole piuttosto che su altre in base a vari criteri. Il cervello di una persona in crescita può infatti rispondere in modo diverso da quello di un adulto. A volte si fa ricorso anche a farmaci non registrati in modo ufficiale per gli adolescenti, adottando dosaggi ad hoc, ma bisogna cercare di limitare questa opzione a casi ristretti, e, ovviamente, sempre con il consenso dei genitori. Fra gli SSRI (Inibitori del Reuptake della Serotonina), la classe di farmaci più usata contro la depressione, c’è n’è uno indicato in modo specifico per i minorenni e ce ne sono altri due indicati per i disturbi ossessivo-compulsivi. C’è poi un farmaco sperimentato sull’adulto ma anche sugli adolescenti che si somministra per via inalatoria e che è un potente antidepressivo con spiccati effetti antisuicidari, già approvato negli Usa ma non ancora in Italia. Sarà comunque probabilmente riservato all’uso ospedaliero».

Come sono le labbra perfette? Ecco le proporzioni ideali secondo la scienza

Come sono le labbra perfette? Alcuni studiosi californiani hanno fatto un esperimento per capire se hanno più successo quelle sottili o «a canotto» e il risultato che hanno ottenuto non è affatto scontato. Se ne parla sul nuovo numero di Corriere Salute, in edicola il giovedì gratis insieme al Corriere della Sera. I ricercatori hanno mostrato a studenti universitari (americani), di età compresa fra i 18 e i 25 anni, una serie di foto di donne, considerate esteticamente belle, ma con diverse proporzioni delle loro labbra. La prima era quella che prevedeva la dimensione del cosiddetto labbro rosso inferiore doppia rispetto a quello superiore. La seconda era quella con un rapporto 1:3, cioè labbro inferiore di dimensioni tre volte maggiori rispetto al superiore. La terza: labbro superiore uguale a quello inferiore. L’ultima, labbra superiori più grandi di quelle inferiori.

Meno ricordi, più distrazioni: così Internet ci sta cambiando il cervello

Il nostro cervello è cambiato negli ultimi decenni e la colpa (o il merito) è di Internet. Un esperimento realizzato all’Università tedesca di Regensburg e pubblicato sulla rivista Nature ha dimostrato che l’apprendimento di un’abilità nuova può espandere le aree cerebrali coinvolte. Nel caso specifico si trattava dell’attività di giocoliere: chi aveva imparato in soli tre mesi a lanciare in aria e recuperare al volo delle palline mostrava alla risonanza magnetica un potenziamento di particolari attitudini. Dopo alcuni mesi di interruzione dell’esercizio, le dimensioni erano tornate come prima. Quattro pagine del nuovo numero di Corriere Salute, in edicola domani gratis insieme al Corriere della Sera, sono dedicate all’argomento. Con una domanda: noi umani creiamo gli algoritmi o sono loro che plasmano noi?

Nuovi neuroni

Che il cervello sia in grado di modificarsi sotto l’influsso di stimoli provenienti dall’esterno si sa da diversi anni: il nostro organo più importante è dotato di una particolarissima caratteristica, la neuroplasticità, ed è capace di ristrutturare la sua architettura al bisogno, con la formazione di nuovi contatti tra i neuroni e forse anche di nuovi neuroni. Dunque Internet: una tecnologia che interferisce con la capacità di mantenere l’attenzione, sempre più frammentata dal flusso di informazioni, e con la memoria, che si trasferisce su supporti elettronici al di fuori della scatola cranica. Ma anche con le relazioni sociali, soprattutto a causa dei social network. Molti studiosi ritengono che tali trasformazioni possano indurre cambiamenti strutturali in specifiche aree cerebrali. Alterazioni che potrebbero essere solo l’inizio di un processo dalle proporzioni imprevedibili.

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