Archive for January 30, 2016

Verrà trasferita in un’altra scuola la bambina che non può vaccinarsi

Decisione presa in accordo con il ministro dell’Istruzione

La decisione di disporre l’ispezione era stata presa dopo un colloquio tra Petruzzo e il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. «La bimba deve frequentare e avere i suoi diritti» aveva precisato Petruzzo, tuttavia «la questione presenta problemi di varia natura» e «coinvolge principi importanti, come i diritto di non vaccinarsi e i diritti delle persone con problemi di salute». «Ho fatto rapporto al ministro, la situazione è vigilata – ha detto sempre Petruzzo -, l’amministrazione non sta con le mani in mano». «Ogni bambino ha diritto all’istruzione, qualsiasi sia la sua condizione di vita, di salute e di stato sociale, perché – ha sottolineato il ministro – è un diritto fondamentale della persona come il diritto alla salute, all’espressione delle proprie idee».La mancata certificazione delle vaccinazioni, però, non comporta il rifiuto di ammissione degli alunni alla scuola dell’obbligo o agli esami. Ma messi a fianco della bambina i suoi coetanei possono causarle gravi patologie. Diritti tutti inviolabili, anche se dalla Asl di Firenze viene rilanciato l’invito a «vaccinare tutti i bambini e la popolazione generale seguendo le indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale del ministero della Salute e il calendario delle vaccinazioni della Regione Toscana».

Virus Zika «esplosivo», potrebbe contagiare 3-4 milioni di persone

«Le donne incinte evitino viaggi in aree a rischio»

Si muove anche il Ministero della Salute italiano, che invita le donne incinte a evitare viaggi nelle aree dove sono in corso epidemie di Zika, in particolare Centro e Sud America. È scritto in una circolare inviata agli Assessorati alla Sanità e agli enti coinvolti. Il Ministero ha poi stilato una scheda informativa e un poster da esporre in porti e aeroporti aperti al traffico internazionale. Sulla base dei bollettini epidemiologici internazionali, spiega il Ministero di Lungotevere Ripa, si possono distinguere: Paesi in cui sono in corso epidemie di virus Zika a rapida evoluzione, con trasmissione in aumento o diffusa (Colombia, Brasile, Suriname, El Salvador, Guiana Francese, Honduras, Martinica, Messico, Panama, Venezuela); Paesi in cui vengono segnalati casi e trasmissione sporadica a seguito di introduzione recente del virus (Barbados, Bolivia, Ecuador, Guadalupe, Guatemala, Guyana, Haiti, Porto Rico, Paraguay, Saint Martin). Sebbene finora l’Organizzazione Mondiale della Sanità non abbia raccomandato restrizioni nei viaggi, il Ministero consiglia a chi è diretto nelle aree colpite di proteggersi le punture di zanzara, alle donne in gravidanza, o che stanno cercando una gravidanza, di rinviare spostamenti non essenziali verso tali aree, così come a persone con malattie del sistema immunitario o gravi patologie croniche. Infine viene chiesto ai donatori di sangue, che abbiano soggiornato nei Paesi suddetti, di sospendere la donazione per 28 giorni dalla data del ritorno.

L’impronta delle depressione è trasmessa da madre a figlia


Madre e figlia (Getty images)Madre e figlia (Getty images)
Madre e figlia (Getty images)

«È atletico come suo padre». «Le sue esplosioni di rabbia sono tutto sua madre». Frasi del genere si sentono spesso, ma se c’entri o no la genetica è un altro paio di maniche. Quello che sappiamo è che molti studi hanno dimostrato che la depressione tende a ricorrere nelle famiglie, indicando un aumento del rischio di 2-3 volte tra i parenti di primo grado. Ora però un nuovo studio svela come l’«impronta» della depressione ha più probabilità di essere trasmessa dalle madri alle figlie, e non dalle madri ai figli maschi o dai padri ai figli di entrambi i sessi. Lo dimostra la ricerca pubblicata sul Journal of Neuroscience condotta dal gruppo di Fumiko Hoeft, dell’università della California a San Francisco, e basata sui dati raccolti analizzando 35 famiglie americane. In pratica, è la conclusione, è soprattutto per via materna che viene ereditato il circuito cerebrale responsabile di emozioni, cambiamenti di umore e in particolare la depressione. Gli stessi ricercatori sottolineano comunque come non sia solo la genetica la causa del mal di vivere, ma restano cruciali altri elementi come fattori ambientali, esperienze sociali, stress, esperienze traumatiche.

Gli altri studi

È noto da tempo che molti disturbi emotivi tra cui la depressione, i cambiamenti di umore risiedono nel sistema corticolimbico, una delle strutture più primitive del cervello. In particolare, molte ricerche indicano una forte correlazione nella depressione tra madri e figlie e studi su animali hanno dimostrato che la prole femminile ha maggiore probabilità, rispetto a quella maschile, di mostrare cambiamenti nelle strutture cerebrali associate all’emozione i risposta allo stress pre-natale materno. Il nuovo studio potrebbe oggi fornire una migliore comprensione del ruolo che la genetica gioca nei disturbi dell’umore, consentendo una migliore identificazione dei gruppi a rischio e misure preventive.

Analogie del cervello madre-figlia

Per chiarire se l’attività del sistema corticolimbico possa avere caratteristiche specifiche per ogni persona i ricercatori hanno analizzato l’attività del cervello dei componenti delle 35 famiglie utilizzando una tecnica non invasiva, la risonanza magnetica (Mri). Le mappe cerebrali ottenute attraverso la risonanza hanno mostrato che il volume di materia grigia del sistema corticolimbico di madri e figlie presenta fortissime analogie, cosa che non avviene invece tra madri e figli né tra padri e figli.


Lo studio su persone sane

Lo studio è stato condotto su persone sane e non colpite da ansia o depressione ed è il primo a dimostrare una possibile correlazione fra strutture cerebrali di genitori e figli

, indicando una possibile ereditarietà della depressione per via materna. I ricercatori però chiariscono che «la scoperta non significa che le madri sono necessariamente responsabili della depressione delle loro figlie», precisando ancora una volta che a causare la malattia non è necessariamente un fattore ereditario: «Sono molti i fattori ad avere un ruolo nella depressione – ha spiegato Hoeft – come i geni non ereditati dalla madre, l’ambiente sociale e le esperienze di vita, solo per citarne tre. La trasmissione madre-figlia è solo una parte di tutto questo». Ora i ricercatori hanno intenzione di allargare la ricerca a famiglie i cui figli sono stati concepiti utilizzando diverse fecondazioni in vitro (fecondazione eterologa, omologa): «In questo modo potremo distinguere gli effetti della genetica, dell’ambiente prenatale e postnatale sulle funzioni del cervello».

I limiti della ricerca

«Sono risultati davvero interessanti ed emozionanti – commenta Geneviève Piché , psicologo dell’Università del Quebéc – che ha studiato l’impatto di fattori ambientali come l’assistenza parentale e il comportamento punitivo sulla depressione – ma dobbiamo rimanere cauti. Lo studio riguarda 35 famiglie sane, non possiamo essere sicuri che questi risultati valgano anche per famiglie in cui ci sono persone depresse. Dovremo aspettare studi che partano da madri depresse e vedere se si ottengono risultati simili»

Il linguaggio

Al di là dell’indicazione della possibile ereditarietà delle regioni cerebrali responsabili delle emozioni, questo nuovo metodo di ricerca potrebbe ora essere applicato per ricercare la possibile trasmissione ereditaria di altri tipi di schemi cerebrali, ad esempio nelle strutture legate al linguaggio, alla dislessia e all’autismo.

Rinunciò ai regali per donare valvole all’ospedale, morta a dieci anni






Marta MagossoMarta Magosso
Marta Magosso

Un anno fa, nel Natale 2014, la sua storia aveva commosso Padova e un pezzo d’Italia: Marta Magosso, 10 anni, ricoverata in ospedale per un neuroblastoma aveva scelto di rinunciare ai regali di Natale donando i suoi risparmi, 475 euro, proprio all’ospedale dove era ricoverata per acquistare i tappi blu, cioè valvole speciali per la pulizia dei cateteri con cui tutti i bambini ricoverati nel reparto di oncoematologia devono convivere. Marta però non ce l’ha fatta: dopo tre anni di lotte, dimostrando tenacia e grande generosità si è arresa alla malattia.

Il ricordo del papà

«Era sempre molto attenta agli altri e alle loro esigenze, qualità che ci rendeva molto orgogliosi e ci stupiva» racconta papà Andrea al Mattino di Padova. Nella sua letterina di Natale quest’anno aveva chiesto regali per i genitori, la sorella, i nonni e tutti quelli che si stavano dando da fare per lei.

La diagnosi

I medici avevano diagnosticato a Marta il neuroblastoma il 25 febbraio 2013. Dopo due anni di chemioterapia sembrava essere uscita dal tunnel ma a metà luglio ha avuto una ricaduta dal quale non si è più ripresa. Era in ospedale dal 2 dicembre ed è uscita solo nel giorno di Natale, che ha trascorso con la famiglia. La piccola lascia il padre Andrea, ex giocatore e allenatore del Valsugana Rugby Padova, mamma Sandra e la sorella Matilde.

Tumore orofaringeo, il sesso orale fa crescere il rischio del 22 per cento








Nel mondo ogni anno 500mila persone subiscono una diagnosi di tumore al cavo orale, ma la percentuale è in netto aumento. Tra le categorie a rischio non ci sono solo accaniti fumatori e bevitori, ma anche coloro che hanno rapporti orali. Il sesso orale viene infatti chiamato in causa da questo ennesimo studio che ne mette in luce i rischi, quantificando con precisione e per la prima volta i pericoli a cui espone. 

Percentuali precise

Da tempo è noto che i rapporti orali contribuiscono ad aumentare il rischio di tumore, ma l’ultima ricerca in questa direzione, promossa dall’Albert Einstein College of Medicine di New York e pubblicata su Jama Oncology, quantifica direttamente questo legame, chiamando in causa il papilloma virus (HPV), responsabile di una larga parte dei tumori orofaringei. La ricerca parla delle maggiori possibilità di ammalarsi di cancro attraverso questa pratica sessuale che sostanzialmente costituirebbe una sorta di autostrada per il virus, trasportandolo dall’utero alla bocca. La bocca, a livello cellulare, è infatti molto simile alla vagina e alla cervice e tutte e tre presentano mucose con una struttura che costituisce il target ideale di due tipi di HPV, il 16 e il 18. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha infatti confermato l’evidenza oncogena per 12 tipi di HPV e si stima in particolare che HPV 16 e HPV 18 siano responsabili di oltre il 70 per cento dei casi tumorali. Lo studio americano è il primo a dimostrare che la presenza del papilloma virus nel cavo orale porta allo sviluppo del tumore orofaringeo e sostiene che il rischio di sviluppare un tumore è 22 volte superiore per chi ha questo virus rispetto a chi non lo ha.

Papilloma virus

L’infezione da papilloma virus (HPV) gioca un ruolo cruciale nello sviluppo del tumore della cervice uterina e oggi si ritiene che svolga un ruolo importante anche nell’eziopatogenesi dei tumori del cavo orale e dell’orofaringe. Attualmente rappresenta la causa di circa il 35 per cento dei tumori dell’orofaringe in Italia, con un costante incremento. Negli Stati Uniti la situazione è ben peggiore e sta raggiungendo livelli endemici (70 per cento dei tumori dell’orofaringe). Il gruppo di virus conosciuto come HPV trova un ambiente fertile nelle membrane umide, tra cui il collo dell’utero, la bocca e la gola, e a rischio sono chiaramente anche gli uomini. Le neoplasie del cavo orale colpiscono dunque particolari categorie e in questa ottica è più che mai fondamentale una capillare opera di sensibilizzazione.

La fibrillazione atriale è decisamente più pericolosa per le donne 




(Getty Images)(Getty Images)
(Getty Images)

Questioni di sesso e di cuore: parliamo di problemi medici. Secondo una ricerca, pubblicata sul British Medical Journal, le donne con fibrillazione atriale hanno un rischio molto maggiore di andare incontro a ictus, malattie di cuore, scompenso cardiaco e morte rispetto agli uomini che soffrono dello stesso problema.

Cos’è la fibrillazione atriale

La fibrillazione atriale è un disturbo del ritmo cardiaco molto diffuso. In pratica gli atri (due delle quattro cavità cardiache) non si contraggono in sintonia con i ventricoli: il risultato è che nelle cavità atriali si formano coaguli di sangue che possono andare in circolo e occludere le arterie, provocando, appunto, ictus e altri incidenti cardiovascolari. Ecco perché la fibrillazione atriale è considerata un importante fattore di rischio per queste patologie. E i dati lo confermano: nel 201, nel mondo, ne hanno sofferto 33,5 milioni di persone. 

Diabete e fumo

Non sempre, però, i fattori di rischio cardiovascolare hanno lo stesso impatto su uomini e donne: per esempio, si sa che il diabete e il fumo di sigaretta sono più dannosi per le donne che per gli uomini. Così ricercatori dell’Università di Oxford (Gran Bretagna) , di Sydney (Australia), di Toronto (Canada) e del Massachussets Institute of Technology di Boston (Usa) si sono posti il problema se anche la fibrillazione atriale avesse un impatto maggiore sul sesso femminile. Hanno analizzato trenta studi, condotti su più di quattro milioni di persone, e hanno messo in relazione la presenza di una fibrillazione atriale con tutte le cause di mortalità, con la mortalità cardiovascolare, l’ictus, gli infarti non mortali e lo scompenso cardiaco. 

Scompenso cardiaco

Ecco i risultati: la fibrillazione atriale è associata a un rischio relativo di mortalità globale del 12 per cento in più nelle donne rispetto agli uomini. In particolare predispone in maniera importante a ictus, eventi cardiaci mortali e scompenso. Non si conoscono ancora le ragioni di questa disparità, ma la ricerca suggerisce, nella pratica clinica, di prestare particolare attenzione a questa condizione nelle donne e di indirizzare più risorse alla prevenzione e al trattamento della fibrillazione atriale nella popolazione femminile. E ovviamente invita a condurre nuove ricerche per individuare le cause di queste differenze di genere.

Con la cocaina il cervello diventa cannibale e distrugge i suoi neuroni




(Ansa)(Ansa)
(Ansa)

L’autodistruzione delle cellule

Si tratta di un processo che avviene quando le cellule si auto-divorano: una sorta di suicidio delle cellule stesse, che si degradano, ripulendosi, eliminando automaticamente quelle parti all’interno della cellula stessa che vanno sostituite. Ma nel caso dell’assunzione di dosi di cocaina, raccontano i ricercatori della Johns Hopkins, questa sorta di pulizia accelera e invece che rimanere in una fase di semplice svuotamento delle parti inutili della cellula, finisce per eliminarla del tutto. Come spiegano i ricercatori, «una cellula è come una casalinga che non fa altro che produrre spazzatura; l’autofagia è proprio la casalinga che porta via l’immondizia, solitamente una procedura corretta, dunque. Ma l’effetto della cocaina fa sì che la casalinga stessa getti via cose importanti, come i mitocondri, che forniscono energia alle cellule». Se lo studio dimostra come la cocaina sia dannosa per i neuroni e arrivi a bruciarli, fino a causare la loro stessa distruzione, arriva anche a dire che questo può accadere anche per chi (sempre tra i topi) ha avuto madri che hanno consumato questa sostanza tossica durante la gravidanza.


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Con le nuove droghe non sai «di che ti fai»

Cannabinoidi sintetici


Un antidoto all’autofagia?

Dopo molti anni di esperimenti sul tema, lo stesso team di ricercatori ha anche isolato un antidoto al problema. Alla John Hopkins infatti gli studiosi avevano scoperto a metà degli anni Duemila come le cellule del cervello per comunicare tra loro usino il monossido di azoto e come quest’ultimo sia coinvolto nel deperimento delle cellule grazie all’uso di cocaina attraverso l’interazione con un enzima, chiamato GAPDH. Dopo altri anni di studi e ricerche, ecco la novità dell’ultimo studio: vi sarebbe infatti una sostanza, la CGP3466, che interromperebbe l’interazione tra l’enzima appena citato e il monossido di azoto, riuscendo di fatto anche a interrompere il processo di autodistruzione che avviene nell’autofagia delle cellule. È presto per arrivare a un suo uso nell’uomo, ma proprio dietro a questa sigla alfanumerica (CGP3466) potrebbe nascondersi un medicinale in grado di contrastare gli effetti dannosi del consumo di cocaina nei tossicodipendenti e ciò potrebbe portare a nuovi medicinali per abbassarne rapidamente la tossicità. Per ora questa sigla è stata testata sui topi per combattere il Parkinson e altre patologie degenerative, senza grandi successi: per vederne un’applicazione pratica contro gli effetti del consumo di cocaina dovranno invece passare ancora molti anni.

Vivere in un grattacielo (ai piani alti) può essere un rischio per il cuore




Toronto (Getty Images)Toronto (Getty Images)
Toronto (Getty Images)

Certo, si può anche godere di panorami impagabili sulle città, ma vivere ai piani alti può essere un handicap, nel caso si vada incontro a un arresto cardiaco. Le probabilità di sopravvivenza, in queste condizioni, sono inversamente proporzionali all’altezza del palazzo. Il problema è quello dei soccorsi: quanto più si abita in alto, tanto più tempo ci metteranno i soccorsi del “991” a raggiungere chi ha bisogno di un’assistenza immediata. Parliamo del “991”, il numero dell’emergenza sanitaria canadese (e americana), dal momento che lo studio (che ha valutato i tempi di soccorso in varie situazioni) è stato condotto proprio da quelle parti ed è pubblicato sul Canadian Medical Association Journal

Ritardo nei soccorsi

Dice Ian Drennan, un paramedico ricercatore del gruppo Rescu con base al St Michael’s Hospital di Toronto e primo autore della ricerca: «I palazzi con molti piani pongono problemi di accesso non indifferenti ai soccorritori. Per esempio i ritardi degli ascensori. E la distanza di chi ha bisogno di aiuto, rispetto all’ambulanza, possono interferire negativamente con la prima assistenza». Lo studio ha preso in considerazione oltre 8mila adulti che sono andati incontro ad arresto cardiaco, soccorsi dal 911 nella città di Toronto (capoluogo dell’Ontario) e nella Regione di Peel, sempre in Ontario, dal gennaio 2007 al dicembre 2012 . Il tasso di sopravvivenza complessivo, dopo le cure in ospedale, è risultato complessivamente del 3,8 per cento. Più nel dettaglio, però, risultava del 4,2 per cento per le persone che vivevano dal terzo piano in giù e del 2,6 per cento per chi viveva più in alto.


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Come si fa la rianimazione cardiopolmonare

Le fasi del soccorso – Il malore


Rianimazione cardiopolmonare

Ancora più precisamente, testimonia Drennan: la sopravvivenza al 19mo piano risultava dello 0,9 per cento, sopra il 25mo tutti sono deceduti. «I pazienti che sono sopravvissuti – continua Drennan – erano i più giovani, e quelli sottoposti, da parte dei presenti, a manovre di rianimazione (respirazione cardiopolmonare), anche se queste ultime vengono messe in atto in pochissimi casi, purtroppo. Perché la rianimazione cardiopolmonare immediata ed eventualmente l’uso di un defibrillatore, se disponibile, fa la differenza fra la via e la morte». Le tecniche di rianimazione, dopo un arresto cardiaco, possono raddoppiare le probabilità di sopravvivenza di una persona, ma vengono utilizzate solo nel 30 per cento dei casi. 

Più defibrillatori

Gli autori dello studio elencano una serie di raccomandazioni per rendere più efficaci i soccorsi. Intanto suggeriscono di collocare defibrillatori nei palazzi a ogni piano o, almeno, nelle lobbies (atri all’ingresso). Poi raccomandano di fornire ai paramedici le chiavi degli ascensori per un accesso privilegiato (come già hanno, almeno in Canada, i pompieri), soprattutto perché a Toronto sta aumentando il numero degli inquilini di una certa età che vivono in stabili a più piani. 

La situazione in Italia

Riflessione: la realtà canadese di una città come Toronto è un po’ lontana da quella delle nostre città italiane. Da noi non sono moltissimi i grattacieli (tranne che a Milano, dove ne sono cresciuti alcuni in questi ultimi anni, e in pochissime altre aree). Si spera che i super-architetti dei nuovi palazzi abbiano preso in considerazione anche le necessità di tipo sanitario (arresti cardiaci e altre emergenze), ma anche l’accessibilità, per esempio, ai portatori di handicap, cosa che Santiago Calatrava non ha affatto preso in considerazione progettando il Ponte della Costituzione a Venezia, vicino alla Stazione Santa Lucia. Da noi, dunque, la questione della rapidità dei soccorsi è un po’ diversa. Città storiche, vecchi palazzi, strade strette e traffico convulso. Ecco i problemi più diffusi. Allora: bene lo studio canadese che mette il dito nella piaga, ma deve essere reinterpretato da chi si occupa di sanità pubblica nelle nostre realtà quotidiane.

Test su nuovo farmaco antidolorifico Sei pazienti gravi, uno in morte cerebrale




L’ospedale di RennesL’ospedale di Rennes
L’ospedale di Rennes

Sei persone tra i 28 e i 49 anni sono state ricoverate in gravi condizioni all’ospedale universitario di Rennes, nell’ovest della Francia, dopo aver assunto nell’ambito di una sperimentazione clinica una molecola per testare un nuovo farmaco antidolorifico. Per tutta la mattina di venerdì si è detto che il nuovo farmaco era derivato dalla cannabis, informazione rilanciata dai media francesi che hanno citato la procura di Parigi come fonte. Ma nel pomeriggio nel corso della conferenza stampa il ministro della Salute francese, Marisol Touraine ha smentito la notizia chiarendo che il farmaco «non contiene cannabis né derivati». Il medicinale somministrato conteneva una molecola cannabinoide sintetica studiata per agire sui disturbi dell’umore e i centri recettivi del dolore. Tra i sei pazienti ricoverati uno è in stato di morte cerebrale e tre hanno subito danni cerebrali tanto gravi da rischiare da essere irreversibili.

Lo studio clinico

Lo studio clinico è stato condotto dalla società Biotrial, che proprio a Rennes ha un importante centro di ricerca medica ed è specializzata nel test dei farmaci, oltre ad avere più di venti anni di esperienza. Il test era messo a punto per Bial, il primo gruppo farmaceutico portoghese, fondato nel 1924. Il ministro della Sanità francese, Marisol Touraine, ha parlato di «incidente grave» e ha chiesto il rispetto per le famiglie. I sei volontari che si sono sottoposti al test erano in buone condizioni di salute prima di assumere la pillola per via orale. La molecola sperimentata si chiama BIA 10-2474 ed è un prodotto sviluppato per il trattamento dei disturbi dell’umore nei pazienti affetti da Parkinson che va ad agire sui recettori dei cannabinoidi, presenti nel corpo umano e nei mammiferi.

Il test su volontari sani in fase 1

I volontari sani e remunerati (1900 euro) hanno testato la molecola a casa e il primo ricovero è avvenuto i 7 gennaio mentre è di venerdì mattina il caso più grave: uno dei pazienti è stato dichiarato clinicamente morto. Lo studio – ha chiarito il ministro – è iniziato il 9 luglio 2015 e fino ad oggi hanno assunto la molecola 90 persone, che saranno tutte contattate e sottoposte a risonanza magnetica. Il test, precisa ancora il ministero, era un «test clinico di Fase 1, condotto per valutare la sicurezza di utilizzo, la tolleranza, i profili farmacologici della molecola in volontari sani». Tutti i sei pazienti ricoverati hanno assunto la medesima dose di farmaco, la più alta fino ad oggi sperimentata nel trial e questi volontari sono gli unici ad averla assunta «in modo ripetuto»: tutti gli altri partecipanti al trial l’hanno assunta in «dose unica». All’ultimo test avevano partecipato otto persone in tutto ma a due di esse era stato dato un placebo: le uniche due persone a non aver accusato alcun sintomo negativo.

Tre inchieste

L’Agenzia nazionale per la sicurezza del farmaco ha deciso di avviare un’ispezione tecnica, mentre il ministro ha chiesto all’Ispezione degli affari sociali di condurre verifiche su «organizzazione, mezzi e condizioni di intervento» del laboratorio responsabile del test clinico. La procura della Repubblica infine ha aperto un’inchiesta con l’accusa di lesioni colpose.

I migliaia di volontari

Ogni anno migliaia di volontari, spesso studenti che vogliono così pagarsi gli studi, partecipano alle sperimentazioni cliniche, ma incidenti di questo tipo sono rarissimi. Nel 2006, sei uomini furono ricoverati in terapia intensiva in un ospedale di Londra dopo il trial clinico di una nuova cura contro la leucemia. Cinque anni prima, un caso ben più grave, la morte di una donna 26enne, Ellen Roche, in perfetto stato di salute, che aveva partecipato in Usa alla sperimentazione clinica di un farmaco contro l’asma guidata dalla John Hopkins University.

Gli esperti: il caso francese eccezionale

«Per fortuna sono eventualità rarissime. Tuttavia, può succedere che nel corso di una sperimentazione insorgano gravi effetti collaterali» ha commentato Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Possiamo ipotizzare – ha continuato – che si sia trattato di uno studio di fase I, quello in cui si cerca di stabilire quale sia la dose del nuovo farmaco non tossica per l’uomo. Di solito in questa fase dello studio non vengono coinvolte molte persone». Altra informazione necessaria riguarda quello che si è fatto prima di arrivare alla sperimentazione umana. «È importante sapere che tipo di sperimentazione animale è stata fatta e gli altri test condotti. Solo così potremo sapere se tutto questo si poteva evitare». Il direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Luca Pani perla di «un caso eccezionale. Una morte clinica e cinque ricoveri sono numeri pesanti. O c’è stata una contaminazione, oppure c’è qualcosa che mancava nel dossier in maniera preoccupante».

La nota della società Biotrial

In una nota, la Biotrial si difende, sostenendo di aver proceduto «in totale applicazione dei regolamenti internazionali» e di aver seguito fedelmente tutte le procedure, in particolare per l’assistenza medica ai pazienti in cui sono emersi gli effetti collaterali.

Test su nuovo farmaco alla cannabis Sei pazienti gravi, uno in coma




L’ospedale di RennesL’ospedale di Rennes
L’ospedale di Rennes

Sei persone tra i 28 e i 49 anni sono state ricoverate in gravi condizioni all’ospedale universitario di Rennes, nell’ovest della Francia, dopo aver assunto nell’ambito di una sperimentazione clinica una molecola per testare un nuovo farmaco antidolorifico. Per tutta la mattina di venerdì si è detto che il nuovo farmaco era derivato dalla cannabis, informazione rilanciata dai media francesi che hanno citato la procura di Parigi come fonte. Ma nel pomeriggio nel corso della conferenza stampa il ministro della Salute francese, Marisol Touraine ha smentito la notizia chiarendo che il farmaco «non contiene cannabis né derivati» ma agisce sui recettori dei cannabinoidi presenti nel nostro organismo. Tra i sei pazienti ricoverati uno è in stato di morte cerebrale.

Lo studio clinico

Lo studio clinico è stato condotto dalla società Biotrial, che proprio a Rennes ha un importante centro di ricerca medica ed è specializzata nel test dei farmaci, oltre ad avere più di venti anni di esperienza. Il test era messo a punto per Bial, il primo gruppo farmaceutico portoghese, fondato nel 1924. Il ministro della Sanità francese, Marisol Touraine, ha parlato di «incidente grave» e ha chiesto il rispetto per le famiglie. I sei volontari che si sono sottoposti al test erano in buone condizioni di salute prima di assumere la pillola per via orale. Ora uno di loro è in morte cerebrale, quattro hanno disturbi neurologici e rischiano danni irreversibili, il sesto non presenta sintomi. Tutti avrebbero assunta la medesima dose di farmaco, la più alta fino ad oggi sperimentata nel trial. La molecola sperimentata si chiama BIA 10-2474 ed è un prodotto sviluppato per il trattamento dei disturbi dell’umore nei pazienti affetti da Parkinson che va ad agire sui recettori dei cannabinoidi, presenti nel corpo umano e nei mammiferi. Esistono tre tipi di cannabinoidi: quelli derivati dalle piante che producono effetti sul sistema nervoso, il cervello e sull’apparato digerente; i cannabinoidi endogeni, vale a dire quelli prodotti dall’organismo che regolano funzioni come piacere, dolore appetito o ansia e i cannabinoidi vegetali, presenti nella cannabis.

Il test su volontari sani in fase 1

I volontari sani e remunerati (1900 euro) hanno testato la molecola a casa e il primo ricovero è avvenuto i 7 gennaio mentre è di venerdì mattina il caso più grave: uno dei pazienti è stato dichiarato clinicamente morto. Lo studio – ha chiarito il ministro – è iniziato il 9 luglio 2015 e fino ad oggi hanno assunto la molecola 90 persone, che saranno tutte contattate e sottoposte a risonanza magnetica. Il test, precisa ancora il ministero, era un «test clinico di Fase 1, condotto su un medicinale preso per via orale in corso di sviluppo da parte di un laboratorio europeo per valutare la sicurezza di utilizzo, la tolleranza, i profili farmacologici della molecola in volontari sani». In genere la fase 1 delle sperimentazioni prevede che il numero delle persone testate sia molto più esiguo, di solito sotto le 10 persone e in fase 1 il farmaco non è mai somministrato a tutti contemporaneamente. Il laboratorio ha informato il ministero dell’incidente giovedì. Al test avevano partecipato otto persone in tutto ma a due di esse era stato dato un placebo: le uniche due persone a non aver accusato alcun sintomo negativo.

Tre inchieste

L’Agenzia nazionale per la sicurezza del farmaco ha deciso di avviare un’ispezione tecnica, mentre il ministro ha chiesto all’Ispezione degli affari sociali di condurre verifiche su «organizzazione, mezzi e condizioni di intervento» del laboratorio responsabile del test clinico. La procura della Repubblica infine ha aperto un’inchiesta con l’accusa di lesioni colpose.

I migliaia di volontari

Ogni anno migliaia di volontari, spesso studenti che vogliono così pagarsi gli studi, partecipano alle sperimentazioni cliniche, ma incidenti di questo tipo sono rarissimi. Nel 2006, sei uomini furono ricoverati in terapia intensiva in un ospedale di Londra dopo il trial clinico di una nuova cura contro la leucemia. Cinque anni prima, un caso ben più grave, la morte di una donna 26enne, Ellen Roche, in perfetto stato di salute, che aveva partecipato in Usa alla sperimentazione clinica di un farmaco contro l’asma guidata dalla John Hopkins University.

Gli esperti: il caso francese eccezionale

«Per fortuna sono eventualità rarissime. Tuttavia, può succedere che nel corso di una sperimentazione insorgano gravi effetti collaterali» ha commentato Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano. «Possiamo ipotizzare – ha continuato – che si sia trattato di uno studio di fase I, quello in cui si cerca di stabilire quale sia la dose del nuovo farmaco non tossica per l’uomo. Di solito in questa fase dello studio non vengono coinvolte molte persone». Altra informazione necessaria riguarda quello che si è fatto prima di arrivare alla sperimentazione umana. «È importante sapere che tipo di sperimentazione animale è stata fatta e gli altri test condotti. Solo così potremo sapere se tutto questo si poteva evitare». Il direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Luca Pani perla di «un caso eccezionale. Una morte clinica e cinque ricoveri sono numeri pesanti. O c’è stata una contaminazione, oppure c’è qualcosa che mancava nel dossier in maniera preoccupante».

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