Archive for December 31, 2015

Veronesi e la sua vita contro i tumori: «Sconfiggeremo il cancro. Non vedrò quel giorno ma troveremo il modo»




Umberto VeronesiUmberto Veronesi
Umberto Veronesi

Professore, crede ancora davvero che lo si possa sbaragliare?
«Sì, ci credo fermamente. La ricerca ha fatto progressi straordinari e molti tipi di tumore sono effettivamente stati sconfitti. Abbiamo fatto enormi passi avanti nella diagnosi precoce, nella prevenzione e nelle cure e raggiunto risultati che solo 30 anni fa sembravano obiettivi irrealizzabili. Pensiamo al tumore dell’utero, per esempio: oggi abbiamo un vaccino da somministrare alle ragazzine 12enni e sappiamo che così possiamo praticamente evitare che si ammalino. E con il Pap test e il nuovo test Hpv, anche se svilupperanno un carcinoma, lo possiamo scoprire in tempo, in modo che la vita di migliaia di donne non sia messa in pericolo».

In effetti, numeri e statistiche alla mano, non è più un male incurabile, anzi il numero di guarigioni è in costante crescita sempre più guaribile, ma non è ancora del tutto sconfitto. Il cancro, per Umberto Veronesi, è stato l’avversario di una vita: il suo ottimismo, talvolta giudicato eccessivo, dunque resta?
«Sì, resta. Sono convinto che ce la faremo. Ci vorranno 20, 30, 40 anni o forse più, certo io non vedrò quel giorno, ma troveremo il modo. Già oggi molti tipi di tumore sono curabili e moltissimi pazienti guariscono o convivono con la malattia per moltissimi anni, giungendo alla fine della vita per cause diverse dal tumore. Pensiamo ad esempio alle neoplasie del seno, della prostata o della tiroide. Certo purtroppo resta un altro gruppo di tumori, quelli difficili da curare (come pancreas o cervello): non riusciamo a coglierli all’inizio e abbiamo poche terapie efficaci. E’ su questo secondo gruppo che urge concentrarsi, per capire meglio come si sviluppano, le cause e trovare strumenti di diagnosi precoce che ci aiutino a individuarli prima che la situazione sia troppo compromessa».

Secondo lei, come raggiungeremo il traguardo? Nuovi farmaci, genetica, nuovi macchinari… cosa conta di più?
« Sono convinto che si debba puntare di più sulla diagnosi precoce. Credo che il modello da seguire sia quello del cancro al seno, per il quale grazie alla mammografia e ad altri esami riusciamo a scoprire i noduli in fase talmente iniziale che le guarigioni sfiorano il 98 per cento dei casi. Bisogna replicare questo esempio con gli altri tumori. L’idea, a cui stiamo già pensando, è quella di mettere a punto una sorta di risonanza magnetica avanzata e molto sofisticata che riesca a scovare tutte le forme di cancro. Poi certo la genetica è la chiave del successo: ci permetterà di scoprire perché nasce il cancro, capire quali mutazioni del Dna sono responsabili dello sviluppo della malattia e mettere a punto terapie in grado di «riparare» il genoma. Ma serviranno molti anni. I tempi, in questo settore, sono inevitabilmente lunghi».

E per quanto riguarda le nuove terapie?
« Farmaci o radiazioni hanno certo un loro ruolo. Ma per i medicinali c’è un grande problema da affrontare, il loro costo elevato. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale, lo dicono in molti e io sono fra i suoi sostenitori, è fra i migliori al mondo. E’ però messo a dura prova dai prezzi esorbitanti delle nuove terapie, oncologiche e non solo. Quanto alla radioterapia, in questi anni ha fatto enormi progressi ed è certo importante, ma non da sola: la sua utilità è in crescita, sempre comunque abbinata ad altri trattamenti».

A proposito del nostro Sistema sanitario… Sempre più spesso si teme che non riuscirà a garantire le costosissime cure innovative a tutti i pazienti: lei che ne pensa? C’è una strada per evitare il tracollo?
«Stiamo vivendo tempi di grande «imbarazzo sociale», perché già ora è difficile garantire tutto gratuitamente a tutti i cittadini: i nuovi farmaci sono efficaci, importanti, ma troppo cari. Urge trovare una soluzione vera, oppure il Sistema non reggerà. La via del ticket è giusta, anche per evitare abusi da parte di chi vorrebbe esami o cure non necessari, d’altro canto tutela i meno abbienti. Credo una soluzione possibile sarebbe quella di continuare in questo senso, suddividendo la popolazione in base al reddito, chiedendo a chi guadagna di più di integrare il Ssn pagando determinate cure. Inoltre moltissimo si può fare tagliando i molti sprechi che comunque esistono e distribuendo meglio le risorse sul territorio nazionale».

Veniamo invece al capitolo «prevenzione»…
«La prevenzione, come la diagnosi precoce, è un passo fondamentale. Prendiamo ad esempio il tumore all’ovaio, ancora molto letale e difficile da scoprire per tempo, perché non dà sintomi fino alle fasi più avanzate. Si potrebbe ridurre del 90 per cento il numero di casi se le donne prendessero con continuità per anni la pillola anticoncezionale: perché questo messaggio non passa chiaramente? Perché pochi lo dicono?»

Ormai lo sappiamo con certezza: almeno 4 tumori su 10 si potrebbero evitare facendo prevenzione. Oncologi, Istituzioni, associazioni come la Fondazione che porta il suo nome e giornalisti ripetono da anni l’importanza di non fumare, fare attenzione all’alimentazione e al consumo di alcolici, evitare sovrappeso e sedentarietà… ma ancora troppo pochi ascoltano. Come si fa a far passare il messaggio?
« Credo che i media me parlino ancora troppo poco. Giornali, radio, tv non amano parlare di cancro e quando lo fanno è in contesti circoscritti. Bisogna invece parlare di prevenzione in contesti ampi, dove sono in ascolto molte persone, magari non interessate in quel momento a sentir parlare di salute… ad esempio le trasmissioni tv più popolari potrebbero dedicare degli spazi, brevi ma chiari, a messaggi di prevenzione. E poi di certo c’è internet e tutto quel mondo online che va sfruttato meglio, per le sue grandi potenzialità e il pubblico che può raggiungere».

Professore, se fosse un giovane ricercatore oggi, a cosa dedicherebbe la sua vita? Cosa le appare più promettente? E, da chirurgo, non trova che la chirurgia sia un po’ messa in secondo piano oggi?
«Sono un chirurgo e sceglierei di nuovo questa strada. Ancora oggi la prima domanda che ci si fa davanti alla diagnosi di cancro è se è operabile o no. Per programmare le cure si parte sempre da qui: se è possibile, o meno, asportare la lesione cancerosa. Quando poi si procede con l’intervento si può vedere subito il risultato: eliminare chirurgicamente il cancro è una grande soddisfazione. Per il mio temperamento la chirurgia è la scelta migliore: rapida, essenziale, con esiti immediati e permette di migliorare la vita delle persone. Oggi sempre di più la chirurgia deve puntare a questo: rendere migliore la qualità di vita dei pazienti, preservando una vita piena, facendo attenzione a salvaguardare il più possibile l’integrità corporea, la funzionalità, la sfera sessuale, l’estetica, per un ritorno a un’esistenza piena e soddisfacente.

L’insufficienza mitralica: quella valvola del cuore che non «tiene»

Più del 10 per cento delle persone con più di 75 anni soffre di insufficienza mitralica, condizione che si verifica quando la valvola mitrale che separa le due camere di sinistra del cuore, l’atrio e il ventricolo, non chiude perfettamente. La conseguenza è che il sangue che dovrebbe essere spinto dal ventricolo sinistro verso l’aorta, e da qui al resto dell’organismo, refluisce in parte nell’atrio. A lungo andare, se la perdita è importante, il cuore, costretto a lavorare di più, si sfianca e inizia a dare segnali del suo affaticamento.

Che cosa causa l’insufficienza mitralica?
«A provocare l’insufficienza sono difetti a livello delle strutture che compongono la valvola mitrale — spiega Francesco Alamanni, responsabile della Chirurgia cardiovascolare del Centro cardiologico Monzino di Milano —. Nel giovane la causa più frequente è la sindrome da prolasso valvolare (malattia di Barlow), mentre nell’anziano il prolasso è più limitato e prende il nome di deficienza fibroelastica. In questi casi di parla di insufficienza mitralica primitiva, per distinguerla dalle forme secondarie ad altre patologie del cuore, come fibrillazione atriale, infarto o cardiomiopatia dilatativa, condizioni che possono impattare sulla mitrale, impedendole di svolgere in modo corretto la sua funzione. In rari casi l’insufficienza primitiva può avere origine da un’endocardite, dalla malattia reumatica o da calcificazioni dell’anello mitralico».

Come si riconosce?
«In genere nelle forme lievi e moderate non c’è alcun sintomo, ma se la quantità di sangue che refluisce nell’atrio sinistro aumenta perché la valvola è sempre meno efficiente possono comparire diversi disturbi, come facile affaticabilità, fiato corto sotto sforzo, palpitazioni. L’esame fondamentale per valutare l’entità dell’insufficienza è l’ecocardiogramma. Talora può essere utile un ecocardiogramma transesofageo, in cui la sonda ecografica viene introdotta dalla bocca e spinta nell’esofago».

Che cosa si può fare?
«Nelle forme lievi o moderate, in assenza di sintomi in genere si opta per controlli ecocardiografici periodici. Ma se l’insufficienza è grave bisogna prenderei in considerazione un intervento chirurgico, che mira a riparare o a sostituire la valvola malata. La soluzione migliore è sempre quella della riparazione (plastica), poiché in questo caso non è necessario inserire nell’organismo materiale estraneo e il paziente può continuare a vivere con la propria valvola, resa “continente”. Quando, per fortuna solo di rado, questa via non è praticabile si opta per la sostituzione della mitrale con protesi che, però, presentano alcuni inconvenienti. Le protesi biologiche vanno sostituite dopo 10-20 anni circa (non sono quindi l’ideale in un paziente relativamente giovane), mentre quelle meccaniche richiedono la somministrazione di anticoagulanti a vita, con tutti gli inconvenienti che ciò può comportare. Secondo le linee guida internazionali questi interventi sono senz’altro da raccomandare in presenza di sintomi. In centri specializzati si possono eseguire interventi di plastica su valvole con insufficienza severa prima dell’insorgenza dei sintomi, ma se l’insufficienza, pur essendo grave, non dà disturbi bisogna pensarci bene, soprattutto nei casi in cui non sia attuabile la riparazione o l’esperienza del centro non sia garantita. Entrambi gli interventi vengono fatti a cuore aperto e prevedono la circolazione extracorporea, con un rischio operatorio non trascurabile, nell’ordine dell’ 1-2 per cento per la plastica e del 3 per cento per la sostituzione».

Acqua del rubinetto, ci si può fidare L’«oro blu» sarà ancora più sicuro





Finora, possiamo ritenerci fortunati. Le risorse idriche del nostro Paese destinate al consumo umano sono abbondanti e di ottima qualità. Più dell’80% dell’acqua potabile distribuita nella rete, infatti, proviene direttamente da sorgenti o falde sotterranee naturalmente protette e solo un 20% delle acque da destinare ad uso potabile ha bisogno di un processo di depurazione. «In generale – spiega Luca Lucentini, direttore del Reparto Igiene acque interne, dipartimento Ambiente e Connessa Prevenzione Primaria dell’Istituto Superiore di Sanità -, considerando i dati più recenti, la conformità delle acque potabili è superiore al 99% per tutti i parametri sanitari, in linea con gran parte dei Paesi europei». Nonostante il dato positivo e i progressi fatti nel rispettare i limiti europei per salute e ambiente, in Italia restano da sciogliere nodi come il gran numero di gestori, l’elevata dispersione della risorsa nelle reti di distribuzione e – così come in numerosi Paesi del mondo – il rischio geochimico legato alla presenza di concentrazioni naturalmente elevate di elementi potenzialmente nocivi, quali l’arsenico e il fluoro, in alcune zone.

Rete di distribuzione frammentata

Come dimostrano ampiamente le cronache e i dati allarmanti sulle riserve idriche a livello mondiale, l’acqua è un bene fondamentale da preservare e dunque nessuno può permettersi il benché minimo spreco. «E invece – dice Carlo Cremisini, ex dirigente di ricerca di ENEA che per 30 anni si è occupato di prevenzione e risanamento ambientale – in alcuni casi è stato verificato che fino al 40% dell’acqua distribuita viene persa prima di arrivare al rubinetto. Questo è inaccettabile sia dal punto di vista economico e ambientale, sia dal punto di vista della garanzia della conservazione della qualità igienico-sanitaria dell’acqua». L’altro grande problema dell’Italia, e non solo, è l’estrema frammentazione della rete di distribuzione, con più di duemila enti gestori di servizi idrici dei quali quasi il 90% sono sistemi con bacini d’utenza inferiori in molti casi ai cinquemila abitanti, per lo più gestiti in economia. «Dati europei – sottolinea Lucentini – stimano che circa un terzo di questi piccoli gestori non distribuisce acqua conforme agli standard normativi, in genere per parametri non direttamente connessi a rischi sanitari. Sono cifre importanti, che hanno indotto a spostare il modo di tenere sotto controllo la qualità delle acque».

Il nuovo piano europeo per la sicurezza

Il modello a cui adesso bisogna adeguarsi è quello del Water Safety Plan, diventato anche grazie al contributo italiano parte integrante della legislazione europea con la Direttiva 2015/1787. Gli Stati dell’Ue hanno due anni di tempo per adeguarsi alla nuova normativa. Si tratta di una rivoluzione, rispetto ai controlli sull’acqua potabile che oggi sono impostati sulla sorveglianza di porzioni circoscritte del sistema (prelievo-trattamento-distribuzione) e sul monitoraggio a campione dell’acqua distribuita in rete. Il Water Safety Plan invece sposta l’attenzione per così dire a monte e si fonda sul concetto dell’analisi del rischio. «In pratica, per ogni sistema acquedottistico – dice Lucentini – vengono valutati i possibili pericoli che possono compromettere la sicurezza dell’acqua in ogni fase, dal prelievo fino al rubinetto, stimandone il rischio e il possibile impatto sulla salute e, soprattutto, ridefinendo le misure per evitare pericoli». Anche grazie a un progetto sperimentale del Ministero della Salute, l’Iss è stato in grado di elaborare le «Linee guida per la valutazione e gestione del rischio nella filiera delle acque destinate al consumo umano secondo il modello dei Water Safety Plans». Ma la prima applicazione su larga scala partirà a Milano.

Consumatori informati su ogni aspetto

Il gruppo pubblico CAP (197 comuni tra Milano e provincia e in molte altre province lombarde), in cooperazione con Asl e Regione, e con il supporto tecnico-scientifico dell’Iss condurrà a termine il progetto nel corso dei prossimi due anni. Estenderlo a livello nazionale non sarà semplice, anche per via dei costi e degli investimenti necessari. Ma bisognerà farlo e verificarne l’attuazione. «I controlli ci saranno – conclude Lucentini -, perché ai Piani sarà demandata la sicurezza dei consumatori che, come prevede la Direttiva Ue, dovranno essere informati su ogni aspetto».

Un sito ci dirà che cosa è buono

È quasi concluso il nuovo Portale nazionale acque, voluto dal Ministero della Salute in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità. Per quanto riguarda l’acqua potabile – un’altra sezione riguarda quelle di balneazione -, l’attuale versione (che si può consultare sul sito www.portaleacque.salute.gov.it) contiene soltanto i riferimenti alla normativa, alle norme tecniche e alcune note informative. «Il nuovo Portale – dice Luca Lucentini, ricercatore dell’Iss – conterrà la struttura dei controlli, il tipo di risorse che vengono date, i controlli che vengono effettuati a livello ambientale e la sezione sulla qualità delle acque». In mancanza di un flusso di informazioni diretto dalle Regioni al Portale, i dati sulla qualità delle acque saranno per il momento disponibili attraverso la pubblicazione dei link ai siti regionali delle acque che per la maggior parte già esistono.

Smog, dopo l’accordo di Parigi l’Europa rivede al rialzo le emissioni




(Fotogramma)(Fotogramma)
(Fotogramma)

Nel clima trionfale che ha accompagnato l’accordo di Parigi sul clima, la Commissione Europea si appresta a cedere platealmente agli interessi delle lobby industriali e agricole rivedendo al rialzo i limiti delle emissioni di ossidi di azoto per le nuove auto Euro 6 e dell’ammoniaca di origine agricola, importante precursore delle polveri sottili. Anche i ministri italiani non hanno mancato di ascriversi molti meriti per l’accordo sul clima raggiunto il 13 dicembre in chiusura della COP 21 di Parigi. Intanto però si lavora per annacquare i limiti degli inquinanti dell’aria. Questo sta facendo il governo italiano in queste ore di negoziazioni a Bruxelles sulla direttiva sui limiti alle emissioni nazionali (NEC), in dirittura d’arrivo al Consiglio dei ministri ambientali che ne sta discutendo dopo forsennati tira-e-molla fra lobby di ogni sorta.

Il caso NOx

Non più tardi dello scorso 28 ottobre la delegazione italiana ha suggerito al legislatore europeo (Technical Committee on Motor Vehicles, TCMV) di alzare del 300% la soglia di tolleranza nelle emissioni di ossido di azoto nelle auto Euro 6: da 80 a 240 mg/km. Una sorta di legalizzazione di quell’eccesso di emissioni reali di ossidi di azoto che ha indotto qualche mese fa la Volkswagen a inventarsi il software abbassa-emissioni. Prima di essere messe in commercio, le auto vengono testate “sul bancone”, dove vengono misurate le emissioni dei vari inquinanti, fra cui gli ossidi di azoto – a cui vengono attributi, solo in Italia, 23mila morti annuali in più. In realtà le emissioni su strada, durante un ciclo di guida reale, sono ben più alte, motivo per cui la Commissione Europea e i Governi stanno mettendo a punto una procedura di test su strada. E proprio in questa fase il 28 ottobre scorso il Comitato tecnico dei governi ha deliberato di applicare a questi test, che dovrebbero entrare in vigore dal 2017, un fattore di conformità per le emissioni NOx degli Euro 6 pari a 2.1: vale a dire la possibilità di emettere il 210% in più dei limiti di legge (168 mg/km anziché 80 mg/km). Questa decisione è stata fortemente criticata da associazioni, esperti sanitari, da una parte del Parlamento Europeo e dalla Commissione Ambiente di quest’ultimo, che ha proposto di porre il veto a tale delibera il prossimo febbraio. L’Italia per parte sua aveva chiesto alla riunione dei tecnici che il fattore di conformità applicabile fosse 3, cioè un limite alle emissioni reali del 300% in più (240 mg/km). La giustificazione? In questo modo – si legge nella posizione italiana – il 60% delle auto diesel prodotte in Italia riuscirebbero a passare il test, evitando quei «rilevanti cambiamenti e investimenti per i produttori» che il fattore di conformità di 2.1 proposto dall’Europa comunque innescherebbe. Senza trucchetti, insomma. A risolvere il problema ci pensa direttamente la Commissione europea. La battaglia su questi nuovi limiti è tutt’ora in corso, e il Parlamento, secondo alcuni pareri legali, avrebbe la possibilità di rigettarla e legiferare direttamente in materia tenendo conto anche del notevole impatto sulla salute pubblica che questi nuovi limiti comporterebbero.

Avanti con l’ammoniaca

Ma i cedimenti sulla qualità dell’aria all’indomani dello storico accordo di Parigi non si fermano qui. Su un altro tavolo sempre a Bruxelles si sta discutendo in queste ore anche dei limiti nazionali da porre alle emissioni di ammoniaca (NO3), di cui è responsabile per il 90% l’agricoltura, con fertilizzanti di sintesi e liquami zootecnici. L’ammoniaca, una volta rilasciata in atmosfera, si converte in particolato fine (PM2,5), responsabile in Italia, secondo lo studio VIIAS del Ministero della Salute, di circa 30mila morti aggiuntive. Ancora una volta la delegazione italiana – secondo quanto emerge queste ore – avrebbe proposto di passare da un taglio a queste emissioni del 20% a uno del 14%. Un meno 6% per venire incontro agli interessi degli agricoltori, senza però contare i danni all’ambiente e alla salute pubblica. «Non c’è dubbio. Se le cose stanno veramente così si tratta di un bel regalo che l’attuale Governo italiano farebbe ai due settori che hanno il maggior impatto sulla qualità dell’aria che respiriamo: l’industria automobilistica e l’agricoltura, peraltro mai toccata da limiti emissivi – commenta l’avvocato Anna Gerometta, presidente dell’associazione Cittadini per l’Aria, molto attiva nel cartello di associazioni a Bruxelles -. Ci auguriamo che il ministro Galletti si dissoci da questi cedimenti della delegazione italiana e riconfermi gli impegni presi precedentemente, a tutela dalla salute di tutti».

Il (poco) grasso che fa vivere di più






«Imprigionato in ogni obeso c’è un magro che fa segnali disperati implorando di essere liberato» (Cyril Connolly, The Unquiet Grave). Davvero? Forse no. Che il sovrappeso, quando lo è davvero, faccia male è sicuro. Chi ha un indice di massa corporea superiore a 30 ha più problemi degli altri, ipertensione per esempio e poi malattie del cuore, ictus e diabete. Ma l’essere un po’ sopra al peso ideale, intorno a 25 dell’indice di prima (che si calcola dividendo la massa-peso in kg con il quadrato dell’altezza in metri), aiuta a stare meglio e ti consente di vivere più a lungo degli altri, anche di quelli che fanno di tutto per mantenersi nei limiti del peso ideale. Peggio di tutti tocca a chi è sottopeso: si ammalano di più e vivono di meno. Vuol dire che il sovrappeso fa bene? In un certo senso sì, almeno un po’, anche se le cose non sono così semplici. L’idea che un po’ di grasso in più aiuti a vivere di più e meglio non è nuova, ma si trattava di osservazioni sporadiche, piccoli numeri, difficile trarre delle conclusioni.

Per vivere bene conta la forma fisica

Finché nel 2013, un’epidemiologa del Centers for Disease Control del Nord America ha analizzato i dati riferiti a quasi 3 milioni di persone, il lavoro è stato pubblicato su Jama, se n’è parlato tanto, ma è stato anche molto criticato. Walter Willett, nutrizionista a Harvard intervistato da Nature faceva un commento così irriverente contro quel lavoro da far pensare a qualcosa di emotivo, ma forse sbagliava. Sono seguiti altri studi, tutti concordi nel concludere come più che il peso, per vivere bene, conta la forma fisica, quella che si raggiunge con l’esercizio, col mangiare sano e col dormire le ore che servono. Così negli ultimi anni si fa strada un altro concetto, in America dicono fitness versus fatness, tradotto è molto meno bello, sarebbe forma fisica contro rotondità, insomma quello che conta è che tu sia in forma e se non rientri nei parametri del peso ideale, pazienza. E non basta. Nel maggio scorso esce su Annals of Internal Medicine un altro studio importante.

Chi è un po’ in sovrappeso si ammala di meno

Ricercatori inglesi e del Qatar – fra loro c’è anche un italiano, di Napoli – hanno seguito 10.000 pazienti diabetici per dieci anni. Volevano capire che rapporto ci fosse fra obesità, malattia del cuore e rischio di morte. Cosa hanno visto? Che chi è un po’ in sovrappeso si ammala di meno e vive più a lungo degli altri, proprio così. Non sarà per caso che quelli in sovrappeso prendono anche più medicine degli altri? Si è chiesto qualcuno. No, non è così, un po’ perché è ben noto che chi non fa attenzione alla dieta non è preciso nemmeno coi farmaci e poi perché quando i ricercatori hanno comparato, a parità di farmaci, diabetici con indice di massa corporea diversa, quelli in sovrappeso andavano comunque meglio. Manco a dirlo arriva la critica degli scettici. «Per forza chi è più magro vive di meno perché è più malato o perché fuma». Ed ecco che i sostenitori del sovrappeso rifanno tutte le analisi, da una parte quelli che fumano, dall’altra quelli che non fumano. In ciascuno dei due gruppi chi è un po’ sovrappeso si ammala di meno e vive più a lungo dei magri.

Mangiare bene: pesce, frutta, verdura, olio d’oliva…

Ma i critici in medicina non si accontentano mai e qualcuno ha fatto notare che «vivere più a lungo non vuol dire vivere meglio». E ancora «se tu consenti alla gente di essere un po’ sovrappeso come fai poi ad evitare che non arrivino a superare la soglia dell’obesità?». Mah… Mi sembrano due argomenti piuttosto deboli. Qualcuno si chiederà: «Ma come? Abbiamo vissuto per anni con l’ossessione della bilancia e adesso viene fuori che forse il peso non conta quasi per niente?». Proprio così, quello che conta è l’esercizio fisico e poi più che fare grandi sacrifici a tavola si dovrebbe cercare di mangiare «bene» che vuol dire più pesce che carne, frutta, verdura, noci, olio d’oliva, pochissimo burro, niente margarina, e pochi zuccheri, le solite cose insomma. E poi non esagerare col sale. Intanto Malcolm Kendrick, un dottore scozzese noto per le sue posizioni un po’ forti contro l’establishment, finisce così un suo articolo sull’Independent: «Non aspettatevi che chi vi ha sempre detto di stare a dieta adesso dica sorry, we were wrong, insomma, ci siamo sbagliati. Non lo faranno mai».

L’eredità di David Phillip Vetter, il bambino vissuto nella «bolla»




David Phillip Vetter con l’immunologo Rafael Wilson (foto: courtesy Baylor College of Medicine Archives)David Phillip Vetter con l’immunologo Rafael Wilson (foto: courtesy Baylor College of Medicine Archives)
David Phillip Vetter con l’immunologo Rafael Wilson (foto: courtesy Baylor College of Medicine Archives)

«Non ha mai toccato il mondo, ma il mondo è stato toccato da lui»: così recita l’epitaffio di David Phillip Vetter, nato nel settembre 1971 e morto nell’ottobre del 1984, dopo aver vissuto la sua esistenza in una bolla perché affetto da ADA-SCID, acronimo che sta per severe combined immunodeficiency disease (sindrome di immunodeficienza combinata grave da deficit di adenosin-deaminasi) e che indica una malattia congenita inquadrata nell’ambito dei difetti primitivi del sistema immunitario che, senza adeguate misure protettive, risulta fatale durante l’infanzia, a causa del prevalere di gravi infezioni. La sua malattia, l’immunodeficienza combinata grave, non consentiva infatti ai suoi globuli bianchi di affrontare tutte le insidie che ogni più piccola particella d’aria porta con sé. 

Trapianto di midollo dalla sorella Katherine

Si tratta di una patologia del cromosoma X che colpisce solo i maschi, è ereditaria e riguarda da 1 su 100mila a 1 su 50mila persone. Un anno prima della nascita di David era morto il suo fratellino, anch’egli malato di SCID, a soli 7 mesi. David invece è vissuto fino all’età di 12 anni: ogni giorno il bimbo diventava più grande e a scadenze periodiche la bolla cresceva con lui. La bolla era stata costruita all’interno dell’ospedale, il Texas Children’s Hospital di Houston, e poi riprodotta anche all’interno della casa dei suoi genitori, in Texas, dove viveva anche la sorellina Katherine. Medici e famigliari potevano toccarlo solo con guanti sterili e allo stesso modo il bambino poteva consumare solo cibi e bevande sterilizzati. La speranza, unica, era il trapianto di midollo donato dalla sorella Katherine. Ma in un primo momento questo scenario fu scartato a causa di una compatibilità non piena. Quando aveva sei anni, gli scienziati della NASA costruirono per lui una tuta speciale che gli permise di uscire dalla bolla per qualche breve incursione nella vita del mondo reale senza rischiare di contrarre infezioni. Intanto il piccolo David era divenuto oggetto di curiosità e aumentavano gli interrogativi di natura bio-etica sul senso della sua esistenza così alienante. Ma i medici sostenevano che la scienza sarebbe andata avanti e che forse un giorno David avrebbe potuto dire addio a quella bolla-prigione. Così non è stato.

David esce dalla bolla (ma per poco)

Nell’ottobre del 1983 si affaccia la speranza di una nuova tecnica che non richiedeva la perfetta compatibilità tra donatore e ricevente nella donazione di midollo. I medici decidono di tentare il trapianto, ma nascosto nel midollo di Katherine c’è il virus di Epstein-Barr, che si rivelerà poi la causa del suo decesso. David morirà dopo due settimane e nella sua breve vita fuori dalla bolla farà in tempo a ricevere un bacio dalla sua mamma. Il New York Times ripercorre questa storia enfatizzando l’eredità del bambino della bolla, che non ha mai toccato il mondo, ma ha fatto sì che il mondo fosse toccato da lui e ripercorre i progressi che la medicina ha potuto fare nel campo dell’immunologia studiando la condizione del bimbo. 

Tutto è cambiato grazie alla terapia genica

Abbiamo sentito il professor Alessandro Aiuti, professore associato di Pediatria all’Università Vita e Salute – San Raffaele di Milano e coordinatore dell’aria clinica dell’Istituto San Raffaele Telethon, che ci ha parlato dello stato dell’arte della scienza nella cura della SCID. »Innanzitutto oggi, anche se non ovunque, si riesce a effettuare una diagnosi già in utero o nei primissimi mesi di vita. Anche in Italia si sta cercando di introdurre lo screening neonatale che permetterebbe una diagnosi tempestiva e questo è sicuramente il primo e cruciale passaggio», sottolinea Aiuti, rimarcando che oggi non si potrebbe ripetere una storia come quella di David. «La scienza è andata avanti poi sia nelle tecniche innovative di trapianto di midollo sia nella terapia genica. In particolare sono tre le immunodeficienze che si sono rivelate curabili dalla terapia genica, ovvero i due tipi di SCID e la sindrome di Wiscott-Aldrich (rara malattia genetica caratterizzata da deficit immunitario che si manifesta però in età più avanzata). In pratica si inserisce nelle staminali prelevate dal midollo osseo del bambino un gene sano, tramite un vettore virale innocuo, in grado di svolgere il compito del gene difettoso», spiega ancora Alessandro Aiuti. L’ultimo miglio di questa rivoluzione è rappresentato dalla promozione di questa terapia, da sperimentale a cura rimborsabile e fruibile da chiunque: «GlaxoSmithKline, Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele hanno depositato all’inizio del 2015 la richiesta di autorizzazione all’Ema (European Medicines Agency) per l’approvazione della terapia genica per il trattamento dei pazienti con affetti da ADA-SCID» conclude Aiuti.

Fasci luminosi per modificare il funzionamento dei neuroni




Un’opera grafica raffigurante l’optogenetica (Getty Images)Un’opera grafica raffigurante l’optogenetica (Getty Images)
Un’opera grafica raffigurante l’optogenetica (Getty Images)

La nuova strada delle neuroscienze passa dalla capacità di cambiare il funzionamento dei neuroni attraverso mutazioni genetiche indotte da microscopici fasci luminosi e da quella di trovare un passe-partout neuro-recettoriale. Iniziamo dell’optogenetica, una recente metodica illustrata da Emilio Brizzi, docente di Neurofisiologia al Massachusetts Institute of Technology di Boston, in occasione del convegno intitolato «Un viaggio di 100 anni nella mente» che il 3 dicembre ha raccolto all’Accademia dei Lincei di Roma i maggiori neuroricercatori di tutto il mondo. «Mentre nella prima metà di questi 100 anni di neuroscienze – dice Brizzi – siamo andati avanti secondo un approccio riduzionistico, cercando di attribuire a ogni singola struttura nervosa una specifica funzione, la ricerca è poi passata a una visione più generale e olistica e, da una decina d’anni, ha avuto un’accelerazione logaritmica che sta diventando sempre maggiore grazie alle nuove metodiche d’indagine funzionale dei circuiti nervosi come la calcium imaging o la two photon microscopy a fluorescenza, che ce li fanno istantaneamente vedere in azione dal vivo, mentre i neurologi che hanno fatto la storia della neurologia moderna come Cajal, Sherrington o Eccles impiegarono anni di studio per intuirne la funzione. Una di queste nuove opzioni è proprio l’optogenetica».

Molte soluzioni

L’optogenetica sta aprendo soluzioni impensabili in patologie come, ad esempio, epilessia, Parkinson o ictus: «Si tratta di una forma raffinata di epigenetica “artificiale” – dice un altro dei relatori del convegno, Fabio Benfenati, che coordina il Center for Synaptic Neuroscience and Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova -. E se nell’epigenetica si è visto che un grave evento stressante può indurre una variazione della struttura genica che porta a patologie talora trasmesse addirittura alla progenie, qui si ottiene l’effetto opposto percorrendo la stessa strada, ma al contrario e in maniera mirata».

«Lov» e «Rest»

Con l’optogenetica è possibile accendere o spegnere i geni sfruttando microimpulsi luminosi che interagiscono con proteine fotorecettrici dotate del dominio LOV, acronimo di Light, Oxygen and Voltage, cioè luce, ossigeno e corrente, scoperto nel ‘97 nella fotosintesi delle piante e poi trovato anche nei batteri procarioti. Il cambiamento conformazionale che la luce innesca sul dominio LOV si riverbera su una proteina delle cellule nervose chiamata REST, acronimo di RE1-Silencing Transcription factor (cioè fattore RE1 di silenziamento della trascrizione) che inibisce la neurogenesi in malattie come quelle di Parkinson, di Huntington o di Alzheimer.

Pillole luminose

Un virus vettore che trasporta una proteina LOV ricavata dall’avena induce il neurone a produrre proteine sensibili alla luce (opsine) simili a quelle della nostra retina. E a quel punto risponde prontamente (pochi millisecondi) allo stimolo luminoso inviato da microscopici microelettrodi impiantati. «Se riusciremo a ricavare una batteria biologica dal genoma delle lucciole – annuncia Benfenati -, si potrà ottenere lo stesso effetto ingoiando una semplice pillola, che diventerà la pasticca optogenetica che illumina i neuroni e innesca la reazione LOV-REST».

Modulatori allosterici

«Oggi possiamo guardare alle varie componenti del sistema nervoso come a un tutt’uno dove ogni parte influenza l’altra – commenta Brizzi – e l’optogenetica induce singole variazioni che influenzano tutto il sistema come in un domino cinese». In quest’ottica si inserisce anche il nuovo filone dei cosiddetti modulari allosterici al cui studio si è dedicato Jean Pierre Changeux della California University di San Diego, anch’egli presente all’incontro romano. La rilevanza delle sue scoperte non è da meno perché dimostra che i recettori neuronali non sono fissi come finora ritenuto, ma in continuo cambiamento conformazionale, trasformandosi in continuazione sulla membrana del neurone e determinando combinazioni patologiche che talora portano a malattie come l’Alzheimer o il Parkinson.

Una chiave per tutti i neuroni

Partendo dallo studio dei recettori nicotinici nei batteri procarioti, Changeux ha posto le basi per lo sviluppo di sostanze in grado di bloccare questo “balletto recettoriale” evitando la comparsa, o almeno contrastando, queste patologie neuropsichiatriche meglio di quanto riescano oggi a fare i farmaci che agiscono ancora secondo i soliti modelli di una selettività recettoriale prefissata, che era sempre sembrata la soluzione ottimale.

Bersaglio mobile

Fare centro su un bersaglio mobile è un’altra delle grandi sfide delle neuroscienze moderne che devono trovare il passe-partout di serrature neurorecettoriali che si modificano continuamente, sfuggendo anche ai trattamenti più selettivi. La chiave che oggi sembra aprire perfettamente la serratura di un neurone già domani potrebbe diventare inutile, vanificando anni di ricerca. Adesso sappiamo perché.

Guardare troppa tv da giovani può danneggiare la prontezza mentale




(Getty Images)(Getty Images)
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Avere visto tanta televisione da giovani può minare la prontezza mentale nella mezza età. È la conclusione di uno studio americano pubblicato sulla rivista Jama Psychiatry, condotto da Tina Hoang dell’Istituto della California del Nord per la ricerca e l’istruzione e Kristine Yaffe dell’Università di San Francisco. Se la passione per la tv è spesso abbinata ai chili di troppo, pochi lavori finora hanno indagato l’associazione con le funzioni cognitive.

Performance cognitive scarse

Il team ha esaminato il tempo trascorso davanti alla televisione, lo sport praticato e la prontezza mentale a 25 anni di distanza. Lo studio ha preso in esame, tramite un questionario, le abitudini e lo stile di vita di 3.247 persone dai 18 ai 30 anni. I ricercatori hanno preso in considerazione in particolare chi guardava tanta tv (più di 3 ore al giorno), mentre la funzione cognitiva è stata valutata con tre test su velocità di elaborazione, funzione esecutiva e memoria verbale, ripetuti negli anni. Ebbene, le persone risultate “tv-dipendenti” nei 25 anni di studio (353 su 3.247, il 10,9%) hanno anche mostrato più probabilità di incappare in performance cognitive scarse in alcuni dei test proposti.

Poco movimento, tanta tv

Anche la scarsa attività fisica nei 25 anni presi in esame (528 su 3.247 partecipanti) è stata associata con prestazioni carenti in una delle prove mentali. In generale, le probabilità di essere meno rapidi di testa sono risultate quasi due volte superiori per le persone che alle maratone col telecomando abbinavano una scarsa attività fisica (3,3% dei partecipanti). «Abbiamo scoperto che bassi livelli di esercizio e alte dosi di fruizione televisiva da giovani sono associati a performance cognitive peggiori nella mezza età. In particolare, questi comportamenti sono stati abbinati con una più lenta velocità di elaborazione e una peggiore funzione esecutiva, ma non con una ridotta memoria verbale», concludono gli autori.

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