Archive for November 30, 2015

In Italia record di morti premature per inquinamento rispetto all’Ue




(Ansa)(Ansa)
(Ansa)

L’Italia è il Paese dell’Unione europea che registra più morti prematuri a causa dell’inquinamento dell’aria: sono i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea). Secondo questi dati, nel nostro Paese nel 2012 59.500 decessi prematuri sono attribuibili al particolato fine (PM 2.5), 3.300 all’ozono (O3) e 21.600 al biossido di azoto (NO2). Le tre cifre non possono essere sommate a causa di numerose sovrapposizioni fra i tre inquinanti. Tuttavia resta il dato eclatante dell’Italia che guida la triste classifica europea delle morti da biossido di azoto, dovute come noto agli scarichi delle auto, in particolare dai veicoli diesel. Anche sull’ozono siamo primi in Europa, mentre sulle polveri sottili, emesse anche dalla combustione delle biomasse, condividiamo la prima posizione con la Germania.

Pianura Padana l’area più insalubre d’Europa

L’area più colpita in Italia dal problema delle micro polveri si conferma quella della Pianura Padana, con Brescia, Monza, Milano, ma anche Torino, che oltrepassano il limite fissato a livello Ue di una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d’aria, sfiorata invece da Venezia. Considerando poi la soglia ben più bassa raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di 10 microgrammi per metro cubo, il quadro italiano peggiora sensibilmente, a partire da altre grandi città come Roma, Firenze, Napoli, Bologna, arrivando fino a Cagliari.

Siamo ben sopra i limiti di sicurezza

I nuovi dati dell’Agenzia Europea dell’Ambiente confermano al rialzo le stime prodotte a inizio anno dallo studio VIIAS del Ministero della Salute, che quantificava in circa 30mila morti premature l’effetto complessivo dell’inquinamento. «Lo studio italiano aveva stimato gli effetti sulla salute realisticamente prevenibili attraverso decise politiche di riduzione delle emissioni ai livelli di sicurezza dettati dall’Oms», spiega Francesco Forastiere, del Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, che aveva coordinato lo studio. Il rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente si spinge oltre, contando tutte le morti premature teoricamente attribuibili all’inquinamento di polveri, ozono e biossido di azoto, anche al di sotto delle soglie di sicurezza dell’Oms. D’altra parte, è prossimo l’aggiornamento di queste soglie, che lo stesso Oms reputa ormai troppo alte.

L’Europa continua a sottovalutare il problema

Il rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente è destinato a creare scalpore anche a livello di Unione europea, che secondo ricercatori e attivisti continua a sottovalutare il problema rimandando leggi e limiti più stringenti. L’ultimo caso in ordine di tempo – segnalato in Italia dall’associazione Cittadini per l’Aria – è la proposta europea di prevedere sforamenti fino al 210% nelle emissioni di ossidi di azoto nei test su strada delle auto Euro 6. Solo l’Olanda si è finora opposta a una decisione che alla luce del nuovo rapporto sarà difficilmente difendibile.

La solitudine indebolisce le difese immunitarie influenzando i geni






La solitudine sarebbe i grado di minare i processi che stanno alla base delle difese immunitarie, modificando di fatto l’attività dei geni proposti a proteggerci. Lo dimostra uno studio appena pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Suscettibili ai virus

La ricerca fa luce su un aspetto noto: il fatto che essere soli, isolati, specie in età anziana, aumenta il rischio di morte e accorcia l’aspettativa di vita. John Cacioppo, psicologo dell’Università di Chicago, da anni studia gli effetti della solitudine sulla salute umana: questa volta sono stati verificati gli effetti nocivi dal punto di vista dei meccanismi organici del nostro corpo. Gli esperti hanno osservato che le cellule immunitarie (leucociti) di persone in condizioni di solitudine presentano un’attività genica alterata a favore di geni pro-infiammatori e a discapito di geni importanti per difenderci dagli agenti infettivi. In pratica, nei leucociti di persone sole risultano meno attivi i geni coinvolti nella risposta antivirale generico contro infezioni e virus. Ecco cosa espone i solitari al rischio di patologie.

Un circolo vizioso

Gli scienziati hanno anche notato come questa debolezza delle difese immunitarie risulta associata a sua volta a un aumento di rischio di restare in solitudine nel futuro prossimo (l’anno successivo ai test effettuati sui leucociti); insomma si è resa evidente l’esistenza di un circolo vizioso che lega indissolubilmente l’essere soli a un sistema immunitario alterato e viceversa. Gli esperti hanno confermato i risultati con esperimenti su macachi tenuti in isolamento: questi macachi risultavano più vulnerabili alle malattie infettive. I prossimi studi del gruppo di Cacioppo si concentreranno sull’obiettivo di verificare se e in che modo gli effetti deleteri della solitudine sulla salute si possano prevenire negli anziani.

Epatite C: le sfide da vincere per i nuovi antivirali




(Clicca in alto a destra per ingrandire l’immagine)(Clicca in alto a destra per ingrandire l’immagine)
(Clicca in alto a destra per ingrandire l’immagine)

Guariscono all’incirca il 90 % dei pazienti: sono i nuovi farmaci anti-epatite cronica C. Che cosa chiedere di più alla ricerca? «Certo, questi farmaci annullano l’infezione nella maggior parte delle persone – commenta Antonio Craxì, professore di Gastroenterologia all’Università di Palermo -, ma nel 10% dei casi sono inefficaci ed esistono categorie di malati che vengono escluse a priori dalle cure, per motivi vari». È a questo che i ricercatori devono pensare ed ecco perché l’attenzione degli esperti, riuniti a San Francisco per il “Liver Meeting” sulle malattie del fegato, è stata monopolizzata da una lunghissima serie di studi su nuove molecole o su nuove combinazioni di quelle già esistenti capaci di agire sul virus C dell’epatite. Molecole che devono rispondere, come dicono gli anglosassoni agli unmet needs, i bisogni non corrisposti.

In quali casi i farmaci non funzionano

Ci sono pazienti infettati da virus particolarmente “cattivi”, di genotipo 3 per esempio, verso cui gli attuali farmaci non funzionano bene. Oppure malati con problemi renali, per i quali il sofosbuvir (presente in molte associazioni oggi disponibili) non è indicato. Ce ne sono poi altri in cui le terapie falliscono perché i virus diventano resistenti, altri che non tollerano la ribavirina (vecchio antivirale che fa parte di molti protocolli di cura, piuttosto tossico). Infine, ci sono i pazienti più compromessi, con cirrosi grave, per i quali certi farmaci sono controindicati (come l’associazione ombitasvir-paritaprevir-ritonavir-dasabuvir, che si può chiamare 3D perché associa tre nuovi farmaci – la D sta per Drugs= farmaci – più il ritonavir, che aumenta la risposta immunitaria), e che hanno bisogno di alternative. «L’importante, dunque – continua Craxì – è avere un’offerta ampia che consenta combinazioni adatte a situazioni diverse e possibilmente senza ribavirina».

Pazienti con problemi renali

Cominciamo dai virus “cattivi”: oggi esistono combinazioni (per esempio sofosbuvir e velpatasvir) che possono annientare il genotipo 3 del virus nel 90% dei casi, anche in quelli più difficili (con cirrosi), e associazioni come la 3D che, nei pazienti con cirrosi compensata, sono efficaci al 100% contro il virus di genotipo 1b (che in Italia interessa il 60% dei pazienti), sia sul genotipo 1a (che più tende a mutare, ma che in Italia è presente solo nel 10% dei casi, mentre negli Usa lo è nel 70%). Passiamo a chi ha problemi renali: «Le questioni sono due – commenta Massimo Colombo, professore di Gastroenterologia all’Università di Milano e direttore del Dipartimento medicine specialistiche e trapianto al Policlinico -. Una riguarda persone con funzionalità renale compromessa o in dialisi, l’altra il trapianto di rene. Nel primo caso lo studio Ruby I, che ha utilizzato la combinazione ombitasvir-paritaprevir-ritonavir-dasabuvir, ha dimostrato che questo regime può eliminare il virus senza interferire con la funzione renale. Anche l’associazione grazoprevir ed elbasvir è indicata in questa categoria. Non solo: quest’ultima può aiutare ad affrontare il problema della carenza di reni da trapianto. Può permettere, infatti, di utilizzare anche organi di soggetti con epatite C, ora scartati, perché può bloccare l’infezione nel paziente trapiantato».

Il problema delle resistenze

Arriviamo al fallimento delle terapie: perché certi pazienti non rispondono ai farmaci? «All’ultimo congresso europeo di Vienna sul fegato – commenta Colombo – ci si era preoccupati perché le cure nei pazienti con cirrosi fallivano nel 20% dei casi. E si temeva che il fenomeno fosse solo da attribuire alle resistenze dei virus. In realtà in molti casi il problema è legato o alla gravità della malattia o a terapie troppo brevi (12 settimane invece di 24 come fanno solitamente negli Usa: noi in Italia curiamo per 24 settimane) oppure alla mancata associazione con la ribavirina che, al momento, in molte situazioni è indispensabile». Il problema delle resistenze, comunque, esiste. «I virus hanno mutazioni innate che, se presenti, riducono l’efficacia delle terapie – spiega Craxì -. E anche se questi fenomeni sono presenti solo nel 5% dei casi, la percentuale diventa importante sui grandi numeri. Alcune delle nuove combinazioni superano il problema».

Epatite C: esistono sette genotipi

Il virus dell’epatite C ha 7 genotipi, con diverso corredo genetico. In Italia il 60% degli infetti ha il genotipo 1b, il 10% l’1a, il 15% il 3, il 5-10% il 4 e 5-10% il 2. I genotipi 5, 6, 7 sono rarità. I medicinali colpiscono enzimi che servono al virus per replicarsi e dal loro suffisso si capisce quale. Se il nome finisce in -previr (come paritaprevir) è la proteasi, in -asvir è l’NS5A, in -buvir è la polimerasi.

Impulsi elettrici per ridurre i tumori avanzati e ormai inoperabili






Lo studio sul tumore del pancreas

Letale e «silenzioso», il tumore del pancreas è un nemico insidioso perché in fase precoce non dà segnali evidenti della sua presenza. Circa un terzo dei casi viene infatti diagnosticato quando la malattia è già localmente avanzata e non è quindi possibile intervenire chirurgicamente. Un team di chirurghi americani specializzati in oncologia e operanti al Johns Hopkins Hospital di Baltimora ha fatto una revisione di tutte le sperimentazioni pubblicate su riviste scientifiche relative all’uso dell’elettroporazione in malati con una neoplasia del pancreas in fase localmente avanzata. «In questi pazienti – spiegano gli autori – si possono ottenere benefici con terapie come la termoablazione o la crioablazione (che sfruttano l’una il calore e l’altra il freddo per eliminare le lesioni tumorali), ma che hanno comunque dei limiti nel loro utilizzo in un organo difficile come il pancreas. Limiti che potrebbero venire invece superati con l’elettroporazione, che in diversi studi si è dimostrata efficace sia nel prolungare la sopravvivenza dei malati che nel diminuire il loro dolore. Servono comunque ulteriori studi per confermarlo e bisogna ricordare che la metodica è applicabile in casi ben selezionati, ma pare essere una promettente opzione in più contro un tumore complicato da trattare».

Come funziona la procedura

L’elettroporazione consiste nel posizionamento all’interno della massa tumorale di una serie di «aghi-elettrodi» che vengono collegati a una apparecchiatura elettrochirurgica di ultima generazione. Si tratta di una piattaforma che genera una serie di impulsi elettrici ravvicinati capaci di distruggere le cellule cancerose, lasciando intatte le strutture vicine alla massa tumorale e preservando vasi, tessuti e strutture sane che la circondano. In pratica consiste in una repentina scarica elettrica, indolore per il paziente: gli elettrodi introdotti nel tessuto malato creano campi elettrici che fanno aprire i pori nella membrana cellulare e permettono così un più facile e aumentato ingresso dei farmaci antitumorali direttamente nelle cellule cancerose. L’obiettivo è quello di ridurre sensibilmente la massa tumorale, in modo che possa poi essere successivamente «aggredita» con un intervento chirurgico o con la chemioterapia che risulta ottenere una maggiore efficacia. La tecnica prevede un’unica seduta di trattamento, è ripetibile in caso di necessità e viene per ora applicata in un numero limitato di casi nei quali non si possa procedere con le terapie standard. Ad esempio se l’intervento chirurgico, la chemioterapia e la radioterapia presentano rischi elevati per il paziente o quando, per l’età o le condizioni generali del malato, i rischi di complicanze sono alti.

Tatuaggi da fare solo in sicurezza (e dopo averci pensato molto bene)






Decorare la pelle è una pratica antica, diffusa in tutto il mondo per i motivi più vari: puramente ornamentali, religiosi, estetici (per nascondere, correggere o migliorare un difetto col trucco permanente). Oppure, semplicemente, si decide di tatuarsi per imprimere in modo indelebile sulla propria pelle qualcosa o qualcuno che ha segnato la nostra esistenza. I numeri, rilevati da un’indagine condotta dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) in collaborazione con l’IPR marketing su un campione di quasi 8mila persone, indicano che 13 italiani su 100 colorano la propria pelle, circa 7 milioni di persone in tutto. Il fenomeno è in crescita, soprattutto tra giovani e giovanissimi (per i minorenni serve comunque il consenso dei genitori) e sia medici, sia tatuatori esperti concordano sul fatto che chi decide di tatuarsi deve essere ben cosciente che è fondamentale riflettere bene prima di procedere, perché se ci si pente tornare indietro è quasi impossibile. Inoltre bisogna accertarsi che la persona cui ci si rivolge abbiano seguito un percorso formativo e verificare che i locali e le attrezzature siano adeguati dal punto di vista igienico e sanitario.

Infezioni e allergie più frequenti di quanto si pensi

Del resto sono proprio i tatuatori più esperti (e più seri) a lamentare il fatto che i clienti troppo spesso sono non “educati” : «Spesso vogliono imprimersi sulla pelle disegni senza averci riflettuto a fondo e senza troppo badare a “chi” e “dove” li sta tatuando» spiega Jaco Pisciotta, un tatuatore di Milano. D’altro canto, con un mercato che si espande velocemente, la categoria si è allargata e non tutti valutano attentamente le richieste dei clienti aiutandoli riflettere sulle proprie scelte. I tatuatori più responsabili, ad esempio, si rifiutano di dipingere le parti più visibili (faccia, mani o collo) in chi non è estremamente motivato e, in genere, ha già svariati altri tatuaggi. Durante il congresso dell’Accademia Europea di Dermatologia, da poco concluso a Copenaghen, i medici hanno poi ricordato i rischi per la salute e secondo i dati dell’indagine Iss, oltre il 3% dei tatuati dichiara di aver avuto complicanze: dolore, granulomi, infiammazioni, ispessimento della pelle, reazioni allergiche, infezioni e pus. «Ma il dato è probabilmente sottostimato – spiega Alberto Renzoni dell’Iss, che ha coordinato la ricerca -, infezioni e allergie sono più frequenti di quanto si pensi. Il tatuaggio è l’introduzione intradermica di pigmenti che entrano a contatto con il nostro organismo per sempre e con esso interagiscono e possono comportare rischi e, non raramente, anche reazioni avverse e per questo è fondamentale rivolgersi a centri autorizzati dalle autorità locali, con tatuatori che rispettino quanto prescritto dalle circolari del Ministero della Salute».


<!–
–>
Tatuaggi: le (semplici) regole per evitare brutte sorprese

Un «esercito» di 7 milioni di persone


Gli italiani sono poco consapevoli dei rischi

Le stesse regole valgono naturalmente per chi sceglie i tatuaggi (o dermopigmentazione) per finalità mediche o estetiche, quali il trucco permanente per arcata sopraccigliare, palpebre e contorno labbra, cui si ricorre anche per ovviare a condizioni patologiche della pelle al fine di ripristinando l’aspetto di una cute sana oppure come complemento agli interventi di chirurgia ricostruttiva. A conferma dell’opinione di medici e tatuatori, gli italiani non paiono particolarmente attenti: solo il 58% degli intervistati è informato sui rischi, e tra le persone che hanno avuto un problema dopo un tatuaggio il 12 per cento si è rivolto a un dermatologo, il 9% al medico di famiglia, e il 27% al proprio tatuatore, ma il 51,3% non ha consultato proprio nessuno, rischiando di aggravare la propri a situazione (nei casi peggiori si può arrivare a sviluppare un’epatite). «Poiché sottoporsi a un tatuaggio significa introdurre un colorante negli strati più superficiali della pelle – aggiunge Walter Ricciardi, presidente dell’Iss – e c’è anche il rischio che batteri possano introdursi e causare problemi. Per questo si devono sempre scegliere centri autorizzati e seguire attentamente le regole igieniche indicate per il dopo-seduta. E, non a caso, è prevista la firma obbligatoria di un consenso informato: se il professionista si impegna a utilizzare materiali a norma e rispettare le leggi sanitarie, a sua volta il cliente deve dichiarare di non avere allergie. Un momento di verifica che non va mai trascurato».

Il cliente deve firmare un consenso informato

Prima di procedere alla effettuazione del tatuaggio è prevista, in modo obbligatorio, la firma, da parte del cliente di un consenso informato. E se da una parte il professionista si impegna a utilizzare materiali a norma e a rispettare le leggi sanitarie, il cliente deve dichiarare, sotto la propria responsabilità, di non soffrire di allergie.

Sanità, in aumento le segnalazioni di chi si vede negati visite o ricoveri




(Fotogramma)(Fotogramma)
(Fotogramma)

Difficoltà di ottenere una visita a domicilio da parte del medico curante, rifiuto di prescrivere farmaci, impossibilità di accedere alla propria documentazione clinica. E poi liste di attesa in aumento, ticket eccessivamente cari, assistenza territoriale in affanno e servizi per la salute mentale fuori uso. Aumentano i cittadini che si sentono dire “no” di fronte alle loro richieste di visite o ricoveri, o che non riescono ad accedere ai servizi sanitari pubblici per problemi di costi, attesa, mancanza di personale. A puntare il dito contro «un Servizio Sanitario Nazionale che ha sempre più difficoltà a garantire l’accesso alle prestazioni» è il 18esimo Rapporto Pit Salute «Sanità pubblica, accesso privato», basato su oltre 24mila segnalazioni giunte nel 2014 e presentato a Roma dal Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva.

Difficile accesso alle prestazioni sanitarie pubbliche

Continuano ad aumentare rispetto al 2013 le difficoltà riscontrate dai cittadini ad accedere alle prestazioni sanitarie pubbliche: le liste di attesa rappresentano la voce più consistente tra le difficoltà di accesso e riguardano esami molto diffusi come ecografie (con attese medie di nove mesi), ma anche esami molto importanti e delicati come risonanze magnetiche e TAC, con tempi insostenibili soprattutto per quanto riguarda l’area oncologica dove si registra un aumento di segnalazioni anche per radioterapia, chemioterapia e accesso ai farmaci oncologici. Un quarto delle segnalazioni (25%) riguarda le difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie determinate soprattutto da liste di attesa (58,7%) e ticket (31,4%).

I problemi dell’assistenza territoriale

L’assistenza sanitaria di base (medici di famiglia e pediatri) fa registrare un aumento del volume di segnalazioni, dal 25,7% del 2013 al 30,1% del 2014, soprattutto perché i cittadini si vedono negata una visita a domicilio (dal 23,3% del 2013 al 28,3% del 2014) o una prescrizione da parte del medico di medicina generale (da 17,8% a 24,5%). Una voce molto importante è quella che si riferisce ai servizi per la salute mentale, con il 13,9% delle segnalazioni per il 2014, a fronte di un problema ormai cronico a causa della mancanza di risorse e personale destinati a quest’area; fra le criticità più segnalate, il ricovero in strutture inadeguate (dal 22,2% del 2013 al 27,9% del 2014), la difficoltà di accesso alle cure pubbliche (dal 17,5% al 19,7%) e i problemi relativi alle procedure di Trattamento Sanitario Obbligatorio (dal 14,3% al 16%).

<!–
–>
Sanità, il Rapporto del Tribunale del malato

Assistenza sul territorio


Il ricovero? «Non necessario»

Aumentano anche le segnalazioni per un ricovero negato, a volte «non ritenuto necessario perché la prestazione può essere erogata dai servizi territoriali, che però non sono sempre in grado di offrirli». Ma a volte il ricovero viene negato anche per tagli ai servizi, «ovvero mancanza di posti letto, chiusura dei reparti, accorpamenti dei presidi, scarso personale». Il 31,7% di chi si sente dire no, infine, afferma che ad esser stato negato è l’accesso alle proprie informazioni cliniche, in primo luogo cartella clinica e referti.

Nove mesi di attesa per un’ecografia

C’è poi la questione delle liste d’attesa: 13 mesi per una risonanza magnetica, 9 per una ecografia, un anno per una tac o una mammografia, due anni per un intervento chirurgico. Tempi che risultano «insostenibili soprattutto per quanto riguarda l’area oncologica dove si registra un aumento di segnalazioni anche per radioterapia, chemioterapia e accesso ai farmaci oncologici, passate in un anno dal 9,4 al 12%», denuncia il Rapporto Pit Salute. Le segnalazioni sui lunghi tempi di attesa sono ugualmente ripartite fra esami diagnostici (36,7%), interventi chirurgici (28,8%) e visite specialistiche (26,3%). Tempi che rischiano di compromettere il senso stesso dell’ipotesi di prevenzione o di diagnosi tempestiva.

Ticket alti per diagnostica e specialistica

Un altro forte ostacolo all’accesso alle prestazioni è rappresentato dai ticket. Nel 2014, il 42% sul totale delle persone contattate segnala problematiche che riguardano i costi elevati e gli aumenti dei ticket per diagnostica e specialistica. La conseguenza è che sempre più i cittadini si allontanano dal servizio pubblico. «Ci vogliono abituare a considerare l’intramoenia e il privato come normali canali di accesso alle prestazioni sanitarie di cui si ha bisogno», commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, che aggiunge: «Le difficoltà di accesso anche in oncologia sono un grave campanello di allarme purtroppo inascoltato». Per Aceti, ci sono «tre azioni concrete da mettere in atto subito: blocco immediato dell’attività libero-professionale (intramoenia) in caso di superamento del rapporto tra attività in libera professione e in regime istituzionale e sforamento dei tempi di attesa massimi previsti dalla legge; garantire l’erogazione di prestazioni anche il sabato e la domenica; prevedere una gestione centralizzata e informatizzata delle agende di ricoveri e interventi chirurgici, superando l’uso delle agende cartacee per assicurare maggior certezza e trasparenza dei tempi di chiamata, oltre che migliorare la produttività».

«Si indebolisce Servizio sanitario pubblico»

Il quadro che emerge dal Rapporto del Tdm-Cittadinanzattiva, in cui emerge che i cittadini pagano di tasca propria le inefficienze di un Ssn sempre meno accessibile, «preoccupa molto i medici, che vedono indebolire sempre di più il Servizio sanitario pubblico e crescere il privato». A dirlo è Roberta Chersevani, presidente della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri). «Sono dati che mettono in discussione anche la sostenibilità del Ssn – aggiunge Chersevani -, che non riesce più a dare le risposte di assistenza e cura ai cittadini. Per questo il 28 novembre a Roma i medici e i cittadini scenderanno in piazza insieme, per una fiaccolata in difesa del Ssn e per una sanità che garantisca uguali diritti a tutti».

« Older Entries