Archive for March 6, 2014

Poche «Unità Ictus» in Italia E il Sud ne è quasi privo

Alla carenza di centri si somma la mancanza di un protocollo per il soccorso

Poche «Unità Ictus» in Italia
E il Sud ne è quasi del tutto privo

Le strutture specializzate per affrontare la trombosi o l’emorragia cerebrale in emergenza sono mal distribuite

Nel mondo succede a una persona ogni sei secondi: un trombo va a occludere un’arteria cerebrale, oppure un vaso sanguigno si rompe all’improvviso, e una parte più o meno estesa del cervello va in black-out. È l’ictus, una malattia che in Italia e nel mondo occidentale è la prima causa di invalidità e ogni anno è responsabile di oltre un decesso su dieci (GUARDA). Viene da pensare che per affrontare un’emergenza tanto grave siano messe in campo tutte le risorse possibili; invece durante l’annuale International Stroke Conference dell’American Stroke Association è stato lanciato l’allarme, sottolineando che il 60% degli ospedali Usa non è attrezzato per erogare la terapia con trombolitico, che “scioglie” il coagulo in caso di ictus ischemico, e appena il 4% dei pazienti candidabili a questa cura la riceve davvero.

Sbagliato credere che da questa parte dell’oceano le cose vadano meglio, proprio la scorsa settimana durante il congresso dell’Italian Stroke Organization sono state segnalate le tante carenze nella gestione dell’ictus nel nostro Paese: dal momento in cui un paziente ha i sintomi a quello in cui affronta la riabilitazione, infatti, sono tantissime le cose che possono andare storte compromettendo la possibilità di un reale recupero che, se tutti gli ingranaggi funzionassero a dovere, sarebbe alla portata di un numero molto più alto di malati. «Intanto, purtroppo, sono ancora pochi gli italiani che sanno riconoscere i segni di un ictus per chiamare subito i soccorsi – spiega Paolo Binelli, presidente dell’Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale (A.L.I.Ce Italia Onlus) -. Un’indagine recente del Censis ha mostrato che appena uno su quattro conosce i sintomi meno noti, come un mal di testa forte e improvviso, un calo repentino della vista, l’incapacità di capire che cosa viene detto o iniziare a parlare a vanvera. Tanti perciò non chiamano il 118 e vanno a letto sperando che passi. Una perdita di tempo che può essere fatale».

Chi ha un buon livello socioeconomico e culturale è più probabile che non trascuri gli indizi di un ictus, ma anche in questi casi bisogna augurarsi di abitare nei paraggi di una delle Unità Emergenza Ictus, o Stroke Unit (VEDI L’ELENCO). In Italia ce ne dovrebbe essere almeno una ogni 200mila abitanti (quindi non meno di 300 in totale), invece sono operative poco meno di 160 e quasi tutte al Nord e al Centro, tanto che al Sud oggi si muore più di ictus che di infarto. Perché le Stroke Unit non riescono a diffondersi come le Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (Utic), che hanno ridotto moltissimo le conseguenze nefaste degli attacchi cardiaci salvando la vita a migliaia di persone? «Le Utic sono fiorite sull’onda della comparsa di cure risolutive per l’infarto come l’angioplastica; anche la Stroke Unit fa la differenza, perché riduce del 10% la mortalità da ictus, ma questo purtroppo non è stato capito appieno e in molte Regioni si è preferito non investire per realizzarle – risponde Giuseppe Micieli, direttore del Dipartimento di Neurologia d’Urgenza dell’Istituto Neurologico Mondino di Pavia -. In molti ospedali peraltro esistono risorse e professionalità che renderebbero relativamente semplice l’apertura di una Stroke Unit».

Non serve infatti chissà che cosa per attrezzarne una, bastano medici, infermieri, logopedisti, fisioterapisti per cui l’ictus sia da anni il pane quotidiano: proprio l’esperienza sul campo fa la differenza. Un paziente con sintomi sospetti che arriva in questi reparti viene subito sottoposto a una TAC o comunque agli esami più adatti per capire il tipo di ictus in atto, poi senza perdere tempo si somministrano i trattamenti più indicati al caso. «Tutti hanno vantaggi dall’essere seguiti da una Stroke Unit, anche chi non può fare la trombolisi perché è arrivato tardi in ospedale o chi è più grave perché ha un ictus emorragico – interviene Carlo Gandolfo, docente di Neurologia dell’Università di Genova -. Grazie alle competenze acquisite seguendo solo questo tipo di malati i medici riescono a prevenire e ridurre le complicanze, ad esempio iniziando la riabilitazione il giorno stesso dell’ictus per ritrovare movimento, parola, capacità di deglutire».

«In chi è stato seguito da una Stroke Unit la disabilità a un anno è inferiore del 25 per cento – aggiunge Binelli -. Questo spiega perché l’investimento necessario a realizzare queste unità si ripaghi in appena due o tre anni: in Italia per i pazienti con ictus si spendono ogni anno circa 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungono almeno 13-14 miliardi di costi stimati per le famiglie, sulle quali la malattia ha un impatto devastante perché si trovano a dover gestire, spesso del tutto da sole, l’impatto delle disabilità residue». Ridurre le conseguenze dell’ictus con trattamenti tempestivi e specifici in Unità specializzate sarebbe perciò essenziale, ma la strada per arrivarci è in salita: alla carenza di Stroke Unit si somma infatti la mancanza di un protocollo specifico per il soccorso. «Quando il 118 interviene su una persona con chiari sintomi di ictus la regola impone di portarlo al più vicino Pronto Soccorso, indipendentemente dal fatto che vi sia una Stroke Unit – spiega Binelli -. Questo rallenta le cure perché spesso in un normale Dipartimento d’Emergenza non si può fare la terapia più adeguata e si deve perciò trasferire comunque il malato in una Stroke Unit, perdendo altro tempo. La nostra proposta è adottare ovunque il “codice ictus”, già attivo in Regioni come Liguria e Lombardia: in pratica, un protocollo di emergenza che funzioni come una corsia preferenziale e consenta di portare il paziente con ictus alla Stroke Unit più vicina, guadagnando minuti preziosi».

Il codice ictus ovviamente deve andare di pari passo con la realizzazione delle unità, perché se non sono a portata di ambulanza arrivarci diventa impossibile: «A Napoli, una città con un milione di abitanti, non esiste una Stroke Unit; in Sicilia per 5 milioni di persone ce ne sono appena 5 – sottolinea Gandolfo -. Dove c’è una buona rete, come in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna o Veneto, il 60-70 per cento dei pazienti viene seguito in una Stroke Unit riducendo mortalità, disabilità, durata dei ricoveri e aumentando la probabilità di tornare a casa propria senza doversi ricoverare in strutture per lungodegenze. Altrove i malati finiscono in reparti di ogni tipo, non attrezzati per affrontare casi spesso complessi e impegnativi; negli ospedali organizzati per intensità di cura, poi, dove i pazienti vengono “smistati” solo in base alla gravità, chi ha l’ictus viene gestito accanto a chi ha una pancreatite e l’approccio iper-specializzato che servirebbe è del tutto capovolto». Così, escludendo le Regioni “virtuose”, nel nostro Paese solo un paziente su quattro arriva dagli specialisti dell’ictus entro quattro ore dai sintomi, in tempo per essere curato al meglio.

Siberia, virus gigante si risveglia dai ghiacci dopo trentamila anni

studio pubblicato su «pnas»

Siberia, virus gigante si «risveglia»
dai ghiacciai dopo trentamila anni

È il più grande mai scoperto e sta tornando in vita a causa
del riscaldamento globale: è una potenziale minaccia

Il Pithovirus (foto di Julia Bartoli e Chantal Abergel)Il Pithovirus (foto di Julia Bartoli e Chantal Abergel) Scioglimento dei ghiacci, virus giganti, vasi di Pandora. Sembrano appunti per un libro di fantascienza, da mettere sulla libreria di fianco a titoli come «Jurassic Park» e «Andromeda» di Michael Crichton. Invece sono le parole chiave contenute in uno studio che esce oggi sulla rivista Pnas. Lo firma un gruppo francese, guidato da Chantal Abergel e Jean-Michel Claverie, che sta passando al setaccio gli angoli più remoti del mondo per portare alla luce creature straordinarie di cui nessuno sospettava l’esistenza.

L’ultimo arrivato è il microrganismo gigante appena scoperto in Siberia, dove è rimasto in letargo per trentamila anni protetto dal permafrost. L’hanno chiamato Pithovirus, dal greco pithos, l’anfora donata dagli dei alla leggendaria Pandora. Secondo il mito conteneva tutti i mali del mondo e la bella fanciulla, scoperchiandola, riversò sull’umanità sciagure di ogni genere. Fu la punizione voluta dagli dei per la disobbedienza di Prometeo, che aveva osato rubare il fuoco. Solo l’anno scorso gli stessi ricercatori avevano stupito la comunità scientifica con un altro virus gigante, anche quello a forma di anfora e ribattezzato, guarda caso, Pandoravirus. Nomen omen, si dice per indicare che il nome delle persone a volte vale come un presagio. Di sicuro questi vasi viventi di Pandora traboccano di sorprese, e forse anche di qualche avvertimento.


Il virus gigante scoperto in Siberia



  • Il virus gigante scoperto in Siberia
       


  • Il virus gigante scoperto in Siberia
       


  • Il virus gigante scoperto in Siberia
       


  • Il virus gigante scoperto in Siberia
       


  • Il virus gigante scoperto in Siberia

Il Pithovirus infetta le amebe, non l’uomo, ma la sua presenza nel ghiaccio spinge i ricercatori francesi a scrivere che il permafrost potrebbe nascondere altri microrganismi, magari patogeni, che potrebbero essere liberati a causa del riscaldamento globale. In uno scenario catastrofico di questo genere il mito di Pandora rivivrebbe riveduto e corretto, con gli uomini puniti per aver inquinato il pianeta e cercato tra i ghiacci nuovi giacimenti di petrolio. Ma queste sono fantasie che dicono poco sui rischi concreti e molto sul funzionamento della mente umana. L’idea della tracotanza e del castigo, evidentemente, esercita un fascino antico e intramontabile. Chi studia le malattie emergenti sa che l’esplorazione di nuovi ambienti espone gli uomini al contatto con microrganismi sconosciuti su cui occorre vigilare. A questo servono le reti internazionali di sorveglianza, che abbiamo visto attivarsi per malattie come la Sars e l’influenza aviaria. Allo stato attuale delle conoscenze, comunque, i virus giganti devono suscitare un sentimento di meraviglia più che di paura. È come se avessimo trovato l’uomo delle nevi in Tibet o Bigfoot nel nord America.

A scuola abbiamo studiato che i virus sono esseri piccolissimi e semplicissimi, al confine tra la vita e la materia inanimata, fatti solo di un involucro che custodisce pochi geni. Oggi questa nozione appare datata: i virus giganti possono superare il millesimo di millimetro e il loro genoma può codificare oltre duemila proteine. Secondo qualcuno potrebbero rappresentare addirittura un ramo indipendente dell’albero della vita. La prima famiglia è stata scoperta dieci anni fa (Megavirus), nel 2013 è arrivata la seconda (Pandoravirus). Ora la terza, che per alcuni aspetti ha caratteristiche intermedie, ma conquista il record della stazza (1,5 micrometri). Il ritmo delle scoperte e la loro distribuzione geografica tra Australia, Cile e Siberia lascia immaginare che il gruppo francese sia estremamente fortunato o che questi virus ciclopici dopotutto non siano così rari. Se è giusta la seconda ipotesi aspettiamoci di fare presto la conoscenza con nuove bizzarre creature ancestrali.

Online il «Tripadvisor» della sanità I cittadini danno i voti agli ospedali

sul sito del ministero della salute

Online il «Tripadvisor» della sanità

Informazioni sugli Irccs in base alla regione e alla patologia da curare, con possibilità di dare i voti

L’Irccs San Raffaele di Milano (Imagoeconomica)L’Irccs San Raffaele di Milano (Imagoeconomica)Informazioni sugli ospedali italiani, con la possibilità di dare i voti alle strutture. Con un clic. È quanto offre il nuovo portale www.dovesalute.gov.it, che censisce le strutture sanitarie italiane come una sorta di Tripadvisor della sanità. La ricerca si può effettuare per specialità, luogo o direttamente con il nome dell’ospedale. Il database fornisce informazioni e contatti, mappa con l’indirizzo e indicazioni stradali, servizi presenti e commenti di altri utenti che hanno usufruito della struttura, con commenti o un “voto” da una a cinque stelle. «L’obiettivo è fare un passo avanti per la trasparenza e fare degli open data un mantra – ha detto il ministro della Salute Beatrice Lorenzin -. I cittadini potranno inserire nel motore di ricerca la loro malattia e la città di residenza, ottenendo informazioni sugli Irccs più vicini dove si cura la patologia. Avranno anche la possibilità di fare commenti sui servizi di cui hanno usufruito. Si parte dagli Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ndr), ma spero che le Regioni ci daranno presto i dati su tutte le strutture sanitarie».

ONCOLOGIA E DOLORE – Per ora sono disponibili i dati relativi ai 49 Irccs italiani (60 sedi, di cui 6 al Sud), ma a breve il sito conterrà informazioni anche su ospedali, ambulatori, ma anche farmacie, medici di medicina generale e pediatri di famiglia. Il vantaggio, ha sottolineato Maria Linetti, direttore generale della Comunicazione del Ministero, è di «avere tutte le informazioni che di solito arrivano attraverso il passaparola». «Si potranno anche consultare e valutare i curricula dei medici a cui ci si affida – ha aggiunto -. Il ministro ha poi puntato su due elementi che saranno messi in evidenza: l’oncologia, per far sì che il sito diventi una sorta di “oncoguida”, e il dolore, con informazioni su come viene gestito nelle varie strutture». Per ogni struttura vengono forniti non solo dati medici, ma anche presenza di parcheggi e servizi per disabili, bar, bancomat, edicola, disponibilità di camere private. E il cittadino può valutare la struttura rispetto ad alcuni aspetti specifici: qualità dei pasti, pulizia, rispetto della privacy, disponibilità e gentilezza del personale medico e non medico. «In una parola, l’aspetto umano dell’assistenza. Cosa che non si tradurrà per forza in una critica, ma anche in apprezzamenti» ha chiarito il ministro Lorenzin. I testi sono in italiano e inglese, in futuro sarà introdotto anche lo spagnolo. «Abbiamo aperta una porta importante – ha concluso il ministro -, perché per le strutture rendersi più trasparenti significa anche rendersi più competitive».

I voti agli ospedali: online il «Tripadvisor» della sanità

sul sito del ministero della salute

Online il «Tripadvisor» della sanità

Informazioni sugli Irccs in base alla regione e alla patologia da curare, con possibilità di dare i voti

L’Irccs San Raffaele di Milano (Imagoeconomica)L’Irccs San Raffaele di Milano (Imagoeconomica)Informazioni sugli ospedali italiani, con la possibilità di dare i voti alle strutture. Con un clic. È quanto offre il nuovo portale www.dovesalute.gov.it, che censisce le strutture sanitarie italiane come una sorta di Tripadvisor della sanità. La ricerca si può effettuare per specialità, luogo o direttamente con il nome dell’ospedale. Il database fornisce informazioni e contatti, mappa con l’indirizzo e indicazioni stradali, servizi presenti e commenti di altri utenti che hanno usufruito della struttura, con commenti o un “voto” da una a cinque stelle. «L’obiettivo è fare un passo avanti per la trasparenza e fare degli open data un mantra – ha detto il ministro della Salute Beatrice Lorenzin -. I cittadini potranno inserire nel motore di ricerca la loro malattia e la città di residenza, ottenendo informazioni sugli Irccs più vicini dove si cura la patologia. Avranno anche la possibilità di fare commenti sui servizi di cui hanno usufruito. Si parte dagli Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ndr), ma spero che le Regioni ci daranno presto i dati su tutte le strutture sanitarie».

ONCOLOGIA E DOLORE – Per ora sono disponibili i dati relativi ai 49 Irccs italiani (60 sedi, di cui 6 al Sud), ma a breve il sito conterrà informazioni anche su ospedali, ambulatori, ma anche farmacie, medici di medicina generale e pediatri di famiglia. Il vantaggio, ha sottolineato Maria Linetti, direttore generale della Comunicazione del Ministero, è di «avere tutte le informazioni che di solito arrivano attraverso il passaparola». «Si potranno anche consultare e valutare i curricula dei medici a cui ci si affida – ha aggiunto -. Il ministro ha poi puntato su due elementi che saranno messi in evidenza: l’oncologia, per far sì che il sito diventi una sorta di “oncoguida”, e il dolore, con informazioni su come viene gestito nelle varie strutture». Per ogni struttura vengono forniti non solo dati medici, ma anche presenza di parcheggi e servizi per disabili, bar, bancomat, edicola, disponibilità di camere private. E il cittadino può valutare la struttura rispetto ad alcuni aspetti specifici: qualità dei pasti, pulizia, rispetto della privacy, disponibilità e gentilezza del personale medico e non medico. «In una parola, l’aspetto umano dell’assistenza. Cosa che non si tradurrà per forza in una critica, ma anche in apprezzamenti» ha chiarito il ministro Lorenzin. I testi sono in italiano e inglese, in futuro sarà introdotto anche lo spagnolo. «Abbiamo aperta una porta importante – ha concluso il ministro -, perché per le strutture rendersi più trasparenti significa anche rendersi più competitive».

Ecco perché i ciechi hanno un super-udito

studio americano

Ecco perché i ciechi hanno un super-udito

Anche un cervello adulto riesce ad aumentare le connessioni acustiche per compensare la perdita degli stimoli visivi

Ray Charles (Epa)Ray Charles (Epa)Chiamatelo «effetto Ray Charles» oppure «effetto Bocelli». Chi da giovane non riesce a vedere, impara a sentire ciò che gli altri non sentono. Su questo fenomeno, che gli scienziati conoscono da tempo, gli autori di fumetti della Marvel inventori dell’Uomo Ragno e dei Fantastici 4, hanno addirittura costruito il personaggio di Devil che, pur essendo cieco dalla nascita, non ha nulla da invidiare né all’Uomo Ragno né a Batman o Superman, perché ha sviluppato una sorta di sonar acustico che gli consente di “vedere” attraverso le orecchie, molto meglio di chiunque altro, anche nel buio più completo. In effetti vari studi hanno dimostrato che il cervello giovane è abbastanza plastico da riuscire a riadattare i circuiti che elaborano informazioni sensitive come quelle acustiche.

CERVELLO ADULTO – Adesso i ricercatori dell’Università del Maryland e della Johns Hopkins University diretti da Hey-Kyoung Lee hanno scoperto che la stessa cosa può accadere in un cervello adulto che riesce ad aumentare le sue connessioni acustiche per compensare una temporanea perdita degli stimoli visivi. Lo studio (su modello animale), pubblicato sul numero di febbraio di Neuron, promette importanti risvolti pratici per chi ha perso l’udito o sente malissimo per i continui ronzii provocati da un comune disturbo chiamato tinnito. I ricercatori, usando un audiometro computerizzato per potenziali evocati acustici, hanno analizzato la rete neuronale dell’udito scoprendo che se si priva il cervello degli stimoli visivi, i neuroni della corteccia cerebrale uditiva sviluppano una maggior capacità selettiva e di discriminazione per le frequenze e l’intensità dei suoni. Ad aumentare sono le connessioni fra la corteccia uditiva e il talamo, il principale imbuto nervoso a cui pervengono tutte le informazioni sensitive prima di andare alla corteccia. In questo crocevia nervoso si verificherebbe un’induzione crociata fra le due sensibilità con un effetto di potenziamento, cosa che non avviene se invece si cerca di stimolare direttamente una sola sensibilità. In altre parole nell’adulto è più facile rinforzare l’udito attraverso una riduzione della vista piuttosto che cercare di stimolare direttamente la sensibilità uditiva, per esempio attraverso stimoli sonori via via più flebili o più acuti o più gravi, nel tentativo di abituare il cervello uditivo a percepire le più fini variazioni. I principali autori dello studio, Patrick Kanold, esperto nei circuiti che elaborano i suoni, e Hey-Kyoung Lee, ugualmente esperto nei circuiti visivi, ne sono convinti e lo studio appena pubblicato dà loro ragione.

SUONI DAL BUIO – Dopo aver messo alcuni topi completamente al buio, i ricercatori hanno verificato l’attività dei loro neuroni acustici e hanno visto che si attivavano prima e di più in risposta a stimoli sonori, riuscendo inoltre a distinguerli meglio. «Ai topi sono bastate poche settimane di cecità simulata per sviluppare queste capacità uditive. Non sappiamo ancora quanti giorni dovrà restare al buio un uomo per avere lo stesso effetto, posto che abbia voglia di farlo – dicono gli autori -. Ma questo studio indica chiaramente che questa modalità di stimolazione crociata plurisensoriale, agendo in quella centralina nervosa che è il talamo, potrebbe correggere i problemi di qualsiasi elaborazione sensitiva nei mammiferi, uomo compreso». Nel 2010, per esempio, uno studio della McMaster University pubblicato sul Journal of Neuroscience ha dimostrato che anche la sensibilità tattile degli ipovedenti, soprattutto se dalla nascita, è superiore a quella di chiunque e ciò spiega la loro capacità di leggere in alfabeto Braille. Probabilmente il motivo è lo stesso: l’azione crociata del talamo.

LA BILANCIA TALAMICA – È un po’ come se il talamo mettesse su una bilancia gli stimoli che gli arrivano prima di inviarli alla corteccia: se quelli visivi calano gli acustici aumentano e così la corteccia uditiva ne riceve di più, tant’è che si mette a costruire più sinapsi per far lavorare meglio i suoi neuroni. Perché succede ? Probabilmente per assicurarci almeno una fonte di stimoli adeguata a farci sopravvivere. È così che nel film «Furia cieca» Rutger Hauer, nei panni del pluri-decorato Nick accecato in Vietnam da una mina, salva solo con una katana il suo compagno d’armi Frank dagli scagnozzi mafiosi che lo perseguitano per debiti prevenendo ogni loro mossa dal solo rumore che fanno, oppure Belén Rueda nel più recente «Con gli occhi dell’assassino» smaschera gli assassini della sorella gemella Sara solo dalla loro voce senza mai poterli vedere in faccia perché una grave malattia le ha procurato la graduale perdita della vista. Forse nelle caverne questo super-udito ce l’avevamo tutti, ma poi l’abbiamo perso uscendo alla luce.

L’attività fisica che fa bene al cuore Guarda il video

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L’attività fisica che fa bene al cuore | Video

Attività aerobica aiuta a prevenire rischi cardiovascolari

L’attività fisica che fa bene al cuore


Le attività aerobiche come la marcia veloce aiutano ad evitare rischi cardiovascolari. Ne parla Gianfranco Beltrami, docente di medicina dello sport all’Università di Parma. La frequenza cardiaca è un parametro importante per la prevenzione : chi ha frequenze cardiache inferiori ai 70 battiti la minuto ha un cuore maggiormente protetto e rischia meno eventi cardiovascolari. Anche chi ha avuto problemi cardiovascolari può esercizio fisico, cominciando con esercizi blandi, ginnastica lenta: chi lo fa ha un’incidenza recidiva minore.

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