Archive for February 28, 2014

Malattie rare, Italia indietro rispetto all’Europa

GIORNATA MONDIALE

Malattie rare, Italia indietro rispetto all’Europa

Non è stato ancora adottato il Piano nazionale ed è in ritardo l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza

Soffrire di una malattia rara significa spesso sentirsi isolati, incompresi, privi di assistenza in quanto malati “rari”. Da qui lo slogan «Insieme per un’assistenza migliore», scelto quest’anno per la Giornata mondiale di sensibilizzazione sulle malattie rare che si celebra il 28 febbraio. Si conoscono circa ottomila diverse malattie rare ma si stima che ne soffrano 40 milioni di europei e circa due milioni di italiani. Essendo rare, non è facile riconoscerle e la diagnosi viene fatta quasi sempre in ritardo. I sintomi, infatti, variano non solo da malattia a malattia ma anche da paziente a paziente, pur soffrendo della stessa patologia. Proprio per facilitare la diagnosi precoce e la presa in carico dei pazienti rari, l’Unione europea ha incentivato la costituzione di reti europee di riferimento con l’European References Network e ha raccomandato agli Stati membri di attuare piani per la lotta alle malattie rare. Ma il nostro Paese ancora non l’ha adottato. Se ne è discusso nel corso di un convegno organizzato all’Istituto Superiore di Sanità, nel corso del quale sono stati presentati i risultati della Conferenza nazionale «EUROPLAN II», iniziativa europea per l’adozione dei Piani nazionali sulle malattie rare nei Paesi dell’Unione.

RISPOSTE URGENTI – Ma cosa chiedono i pazienti? «Abbiamo bisogno di rispose urgenti e di interventi che garantiscano la qualità e l’appropriatezza delle cure – sottolinea Renza Galluppi, presidente di Uniamo-Federazione italiana malattie rare -. Dai risultati del nostro studio emerge che, oltre a centri competenti che vanno individuati con criteri fondati su evidenze e non autodichiarati, occorrono anche servizi ospedalieri e territoriali vicini al luogo in cui vive la persona con malattia rara. Va favorito, poi, l’utilizzo della telemedicina e della teleconsulenza, la “presa in carico” dei pazienti deve essere integrata e va assicurata in tutte le regioni che devono dotarsi di percorsi diagnostico-terapeutici e prevedere un adeguato sistema di monitoraggio».

ASSISTENZA SUL TERRITORIO – Insomma, occorre «cambiare approccio, cioè ragionare in termini di reti a livello nazionale ma anche europeo – aggiunge Simona Bellagambi, referente per l’Italia di Uniamo in EURORDIS, European Organization for Rare Disease -. Sono uno strumento utile per garantire a pazienti, già provati dalla malattia, il loro diritto alla migliore assistenza vicino casa. Fermo restando il diritto a curarsi in un altro Paese se lì trova il centro competente per quella malattia rara, come ribadisce la Direttiva europea sulle cure transfrontaliere. Ma, dopo un intervento chirurgico, per esempio, possono essere evitati spostamenti di chilometri e chilometri se c’è un valido supporto a livello territoriale».

PAZIENTI DISCRIMINATI – Nel nostro Paese, però, ancora esistono discriminazioni per i pazienti che soffrono di malattie rare. «I Lea, i livelli essenziali di assistenza, non sono stati ancora aggiornati per cui, per esempio, nuovi strumenti diagnostici non rientrano tra le prestazioni esenti – sottolinea Paola Facchin, coordinatrice del tavolo tecnico interregionale sulle malattie rare -. Le regioni che hanno risorse disponibili fanno integrazioni, mentre quelle sottoposte a piani di rientro per legge non lo possono fare». In allegato ai Lea esiste un elenco di altre 110 malattie rare in attesa di essere riconosciute. In alcune regioni sono state estese le esenzioni a qualcuna di queste malattie, ma nella maggioranza dei casi si è costretti a un notevole esborso economico per sottoporsi a continui esami e visite.

CONFERENZA STATO-REGIONI – «A breve il Piano nazionale sulle malattie rare sarà sottoposto al vaglio della Conferenza Stato Regioni – assicura il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che ha inviato un messaggio ai partecipanti al convegno -. Il Piano si focalizza soprattutto sulla diagnosi precoce, descrive il percorso diagnostico-assistenziale, si sofferma sulle innovazioni terapeutiche e su quali misure possono essere intraprese per migliorare il loro utilizzo. E individua gli interventi per ridurre le disuguaglianze tra cittadini di diverse regioni». Ma i pazienti ritengono che il Piano vada anche aggiornato. «Chiediamo un impegno delle istituzioni a tener conto dei contenuti condivisi durante la Conferenza Europlan – afferma la presidente di Uniamo -. Il Piano va supportato con adeguate risorse e disponibilità che permettano l’aggiornamento sia dell’elenco delle malattie rare riconosciute che dei Lea, per stare al passo con lo sviluppo delle conoscenze scientifiche. Suggeriamo inoltre – conclude Galluppo – l’istituzione di un Comitato nazionale che preveda la partecipazione anche delle associazioni dei pazienti».

«Storie vere di un supereroe» Guarita, racconta il sarcoma di Ewing

il blog «buonanotte mister ewing»

«Storie vere di un supereroe»
Guarita, racconta il sarcoma di Ewing

Fiorella Palmieri sta pubblicando a giorni alterni
le puntate della sua storia, spera di farne un libro

Un’immagine dal blog di Fiorella PalmieriUn’immagine dal blog di Fiorella PalmieriCerto che ha visto «Braccialetti rossi», la fiction in onda su Rai Uno nella quale alcuni ragazzi formano un gruppo, facendosi coraggio, e si divertono. Sono malati di tumore e trascorrono le loro giornate in ospedale. Fiorella Palmieri, nata a Crotone 31 anni fa, ma romana dai tempi dell’università, ricorda di essersi commossa. Come tutti. Forse lei in modo particolare. Il ricordo della sua malattia – il sarcoma di Ewing, tra i più terribili tumori ossei esistenti – è ancora vivo. Fiorella è guarita, da quasi cinque anni, certo, «ma dimenticarsene sarebbe come far perdere la speranza a chi sta lottando per non abbattersi», spiega Rossella.

STORIE VERE DI UN SUPEREROE – Per questo ha messo su un blog, «Buonanotte mister Ewing», nel quale raccontarsi e ascoltare gli altri. «Mi scrivono in tanti, persone tra le più disperate: da una tenerissima zia che non sa quali parole utilizzare con la nipotina, agli stessi malati, i quali, come me, si rendono conto di quanto soffrano anche le persone vicine, del tutto impotenti di fronte al susseguirsi di giorni senza senso». Fiorella, sul blog (dal sottotitolo, «Storie vere di un supereroe») sta pubblicando a giorni alterni le puntate della sua storia («un libro da 140mila battute, in attesa di una risposta positiva da parte di qualche casa editrice»), ma l’intento non quello di farsi pubblicità.

UN LIBRO PER GUARIRE – «Il libro l’ho scritto quatto anni fa per esorcizzare la mia malattia, e oggi potrebbe servire da sprone a non abbattersi: sorridere, sempre e comunque, aiuta le difese immunitarie, ci protegge». È per questo che Fiorella è alla ricerca di un disegnatore umoristico, di qualcuno che sappia aggiungere un tocco di allegria sul blog ai capitoli dedicati a Mister Ewing, incontrato all’ospedale Rizzoli di Bologna, facendo su e giù tra Roma e il capoluogo emiliano. «Per fortuna, mi hanno dato una mano i miei genitori: curarsi ha dei costi che non tutti si possono permettere», ricorda Palmieri.

SOGNI E PASSIONI – A proposito, sorridere è pagare comunque un prezzo alla malattia. «Ho capito di avercela fatta, quando sono uscita da tre settimane di camera sterile, con dieci chili in meno; guardandomi allo specchio mi sono detta: se sei uscita viva da qui, vuol dire che ce la puoi fare», ricorda Fiorella. Tenacia, ironia e incoscienza le armi vincenti contro il supereroe. «Avevo il 50 per cento di probabilità di non farcela, ma non mi sono mai soffermata sulla gravità della mia situazione». Magari l’avranno aiutata le sue passioni. Oltre alla scrittura, c’è la cucina (si fa chiamare Lella Cook) e Francesco, il suo ragazzo, incontrato prima della malattia. Più prova d’amore di così.

Lezioni di musica fin da bambini: un investimento per il cervello

STUDIO

Lezioni di musica fin da bambini
Un investimento per il cervello

Familiarizzare col pentagramma in gioventù
aiuterebbe la mente a invecchiare meglio

Non è mai troppo tardi, neanche per imparare a suonare uno strumento musicale, ma farlo da bambini potrebbe portare qualche vantaggio in più. Basterebbero infatti anche pochi anni trascorsi a studiare note, diesis e bemolle in giovane età, per garantirsi un cervello più in salute da anziani, almeno secondo quanto afferma una ricerca apparsa sulla rivista Journal of Neuroscience.

LO STUDIO – Nina Kraus, neurobiologa presso la Northwestern University, da tempo indaga sugli effetti che la musica può avere sulla plasticità cerebrale e sulle abilità cognitive e, nel suo ultimo lavoro, ha coinvolto 44 adulti tra i 55 e i 76 anni per valutare la prontezza del loro cervello nel reagire alla percezione di suoni vocali. In queste persone è stata misurata l’attività elettrica della regione del tronco encefalico che processa i suoni mentre ascoltavano una voce che pronunciava ripetutamente una sillaba. Chi aveva seguito da bambino lezioni di musica, per un periodo dai quattro ai quattordici anni, mostrava una più rapida risposta cerebrale alla percezione del suono, di circa un millisecondo più veloce rispetto a chi invece non aveva familiarizzato da piccolo con uno strumento musicale.

BENEFICI NEL TEMPO – «Si tratta di piccolissime differenze temporali – sottolinea Kraus -, ma se le consideriamo per milioni di neuroni, allora possono fare la differenza nella capacità di un anziano nel reagire ai suoni». Il fatto sorprendente poi era che la maggior reattività cerebrale riguardava anche chi non toccava uno strumento da molto tempo, anche da 40 anni. I positivi effetti che studiare musica in giovane età avrebbe sulla mente non andrebbero dunque dispersi, durerebbero nel tempo, fino a farsi sentire anche ben oltre la cinquantina e, secondo Kraus e colleghi, tanti più anni un bambino ha passato a dilettarsi con uno strumento, tanto più ne beneficerà la sua mente adulta. «La velocità con cui il cervello elabora e discrimina i suoni è una delle prime abilità a essere intaccata dall’invecchiamento e riuscire a contrastare questo processo potrebbe migliorare molto la vita degli anziani», conclude l’esperta.

MUSICA E CERVELLO – L’indagine della Northwestern University non è la sola ad avere ribadito recentemente gli effetti che lo studio della musica può avere sulla mente. Al meeting annuale della Society for Neuroscience sono state presentate varie ricerche che hanno messo in evidenza come studiare musica possa avere un effetto positivo su certe funzioni cognitive, cosa che si rispecchierebbe nella struttura stessa del cervello. Uno studio su una cinquantina di ragazzi cinesi ha rilevato che studiare uno strumento per almeno un anno sarebbe correlato alla presenza di una corteccia cerebrale più spessa; effetto più marcato se le lezioni di musica sono avvenute prima del settimo anno di vita del bambino, età in cui i processi di maturazione cerebrale sono più marcati. Ricercatori canadesi e scandinavi hanno poi (indipendentemente) presentato dati che mostrerebbero come un cervello allenato alla musica presenti un più alto grado di connettività neuronale e sia in grado di elaborare meglio gli stimoli provenienti contemporaneamente da sensi diversi. L’argomento va approfondito con altre ricerche, ma quanto scoperto finora lascia presupporre che lo studio di uno strumento musicale possa influenzare profondamente il cervello al punto che potrebbe rivelarsi utile anche nel trattare i disturbi cognitivi e dell’apprendimento, oltre a essere, in giovane età, un prezioso investimento per la salute futura della mente.

Orientarsi fra glucosio e fruttosio L’importante è leggere le etichette

NUTRIZIONE

Come orientarsi fra glucosio e fruttosio

Sotto «accusa» non c’è certo la frutta, ma cibi e bevande industriali in eccesso. Ricordiamoci di leggere le etichette

Cuore e zucchero non vanno d’accordo, almeno stando ai dati appena pubblicati dal Journal of the American Medical Association. Sembra infatti dimostrata una correlazione fra consumo di zuccheri e aumento del rischio di malattie cardiovascolari, non solo perché gli zuccheri favoriscono l’obesità ma anche perché aumenterebbero la pressione, l’accumulo di grasso nel fegato, le alterazioni dei lipidi e dei marcatori dell’infiammazione nel sangue. Ma sotto «accusa» non c’è certo la frutta o il latte, ma soprattutto cibi industriali e bibite zuccherate. Se è vero che le bevande diet ( o light) non sembrano aiutare le persone sovrappeso a ridurre le calorie, è assodato che quelle piene di zucchero, se non si bevono con moderazione, non fanno bene. «Non bisogna però esagerare con i timori: il consumo di bibite zuccherate in Italia è più ragionevole rispetto a quanto accade in America, dove è stato condotto lo studio – interviene Giuseppe Fatati, presidente della Fondazione ADI-Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica -. E non bisogna demonizzare neppure i dolci, a meno di non avere problemi metabolici, come il diabete. Basterebbe spostare l’attenzione dalla quantità alla qualità: porzioni piccole di prodotti preparati in casa o di alta qualità possono essere introdotte nell’ambito di un’alimentazione equilibrata. Il vero pericolo sono i dolciumi a basso costo, in cui, per aumentare la gradevolezza, vengono aggiunti troppi grassi saturi e zuccheri».

LE ETICHETTE - Importante quindi è leggere le etichette per capire quanti zuccheri ci sono nei prodotti. Secondo molti nutrizionisti si dovrebbe anche lavorare con le aziende, come si è fatto per ridurre i contenuti di sale negli alimenti, per far scendere le quantità di zucchero. «La collaborazione è proficua: già oggi la composizione delle merendine è migliorata proprio a seguito delle sollecitazioni da parte degli esperti» fa notare Fatati. L’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe pronunciarsi a breve con un documento sulle raccomandazioni relative agli zuccheri aggiunti. L’ultimo risale al 2003 e suggeriva di consumarne in modo da non superare il 10 per cento delle calorie quotidiane, una percentuale che (pare) sarà ulteriormente ridotta. «Queste indicazioni in percentuale però sono difficili da comprendere e – puntualizza Fatati – sarebbe più efficace suggerire di non esagerare nell’aggiungere zucchero alle bevande, allo yogurt, alla macedonia e ricordare che è importantissimo non introdurre zuccheri semplici lontano dai pasti: mangiarne subito dopo pranzo o cena, infatti, ha un impatto molto minore sul carico glicemico, grazie alla presenza degli altri cibi, che rallentano l’assorbimento del glucosio».

FRUTTOSIO COLPEVOLE – Secondo molti però il vero «colpevole» degli effetti negativi dello zucchero sarebbe il fruttosio: si trova associato al glucosio nel normale zucchero da cucina, o nello sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, usato come dolcificante per i prodotti industriali (c’è anche nella frutta, ma non in dosi tali da preoccupare). Il fruttosio è metabolizzato quasi esclusivamente dal fegato e, se abusiamo di zuccheri e cibi industriali, può essere convertito in grassi più facilmente del glucosio. Inoltre, si trasforma in energia producendo più radicali liberi rispetto al glucosio e richiede perciò una «dose supplementare» di antiossidanti per essere «neutralizzato»; non è regolato dall’insulina e non influenza la produzione di leptina, l’ormone della sazietà (secondo una ricerca farebbe addirittura il contrario, aumentando la grelina, che favorisce l’appetito). Infine, in grandi quantità fa salire i trigliceridi.

DIBATTITO APERTO - Il «caso fruttosio» tuttavia è ancora aperto: l’ultima revisione pubblicata su BMC Biology dal fisiologo Luc Tappy dell’Università di Losanna, sottolinea che nonostante queste accuse un verdetto definitivo non è ancora possibile: «Non è certo che il fruttosio sia la causa più importante dello sviluppo di obesità o malattie metaboliche e cardiovascolari. Certo, trattandosi di un nutriente non indispensabile, non eccedere è comunque una raccomandazione ragionevole».

Cibo sano e campagne in Rete dimezzati i bimbi obesi

NUTRIZIONE

Cibo sano e campagne in Rete dimezzano i bimbi obesi: i punti della lezione americana

Tra i 2 e i 5 anni calo del 43%, non nelle famiglie povere. Tassati anche i prodotti zuccherati

ROMA – C’è lei che sgambetta sul prato della Casa Bianca e alza le mani al cielo, circondata da bambini. E poi ancora lei che fa hip hop nel cortile di una scuola. Eccola di nuovo, piegata, mentre si flette e si rialza imitata da un gruppo di ragazzine. Ride sempre Michelle e si diverte. È il suo segreto. Il segreto di una testimonial di eccezione, la moglie del presidente Obama, che è riuscita a incidere in modo radicale nei comportamenti dei giovanissimi americani. In dieci anni il tasso di obesità per i bambini tra i 2 e 5 anni è calato del 43%. I dati diffusi dall’agenzia federale per la salute («Centers for disease control and prevention») sono molto incoraggianti. Chi è grasso da piccolo ha infatti una probabilità cinque volte superiore rispetto ai coetanei con peso normale di esserlo anche da adulto. Il calo è stato meno sensibile nelle fasce di popolazione economicamente disagiate dove è più difficile intervenire con efficacia.

EFFETTO MICHELLE – L’effetto Michelle è stato potenziato da una serie di iniziative complementari che hanno portato a risultati così eclatanti: progetti nazionali come Let’s Move («Muoviamoci!») incentrato sulle due regole fondamentali del corretto stile di vita. Il movimento innanzitutto, inteso non solo come attività sportiva ma nel senso più generale del «foot traffic», il muovere i piedi. Principio ispiratore dell’architettura delle nuove scuole dove è d’obbligo la presenza di spazi liberi. Poi, la sana alimentazione. A scuole e famiglie vengono fornite indicazioni pratiche per attuare politiche di benessere. Non si tratta di informazioni generiche ma di semplici manuali scaricabili dal web. Tra i fan di Michelle c’è Alexis Malavazos, nutrizionista endocrinologo, del Policlinico San Donato e responsabile del progetto Eat nelle scuole italiane: «La seguo da sei anni in tutto quello che fa. La first lady si mette in gioco, non agisce da seduta, a parole. Ha avuto successo grazie alla continuità e alla perseveranza. I risultati si devono anche ai suoi comprimari, altri testimonial, nomi noti del football americano o del basket».

TASSATI PRODOTTI ZUCCHERATI - Alla martellante campagna di sensibilizzazione si sono affiancate iniziative di contrasto alle lobby industriali. Tassati i prodotti zuccherati e i cibi grassi, via i distributori dai luoghi frequentati dai giovani, promozione dell’allattamento al seno. Certo, molti problemi vanno ancora risolti. L’obesità non ha mollato la presa nelle vecchie generazioni. Nelle donne sopra i 60 anni l’incidenza è addirittura aumentata.

IN ITALIA - E cosa sta succedendo a casa nostra dove le scuole, vecchie e senza palestre, scoraggiano il Foot Traffic ? Il rapporto «Okkio alla salute» coordinato dall’istituto Superiore della Sanità evidenzia un quadro critico: il 22,2% dei bambini fino a 14 anni sono in sovrappeso, il 10,6% obesi con percentuali più alte al Centro e al Sud. «Tuttavia si evidenzia una leggera diminuzione rispetto alle precedenti raccolte di dati», dice Angela Spinelli, che segue la sorveglianza inserita in un più ampio piano di prevenzione «Guadagnare in salute», avviato dal ministero. «Sembra che anche da noi la tendenza all’aumento del tasso di obesità si sia fermato e questo potrebbe preludere a una diminuzione. Nelle famiglie c’è più consapevolezza dell’importanza della corretta alimentazione», aggiunge Raffaella Buzzetti, endocrinologa dell’Università La Sapienza. Il modello americano sarebbe riproducibile da noi? «Ci manca la continuità, qui le campagne sono a singhiozzo, finiscono col finire dei fondi, non martellano. Eppure avremmo tutti i presupposti per vincere grazie alla superiorità delle nostre strutture e al patrimonio dei cibi naturali». Il pensiero corre a Campagna Amica, la Fondazione di Coldiretti. Botteghe con alimenti naturali sotto casa e interventi educazionali nelle scuole per promuovere sani stili di vita.

L’esame (inutile) che dice se si muore in cinque anni (con il punteggio)

Il commento

L’esame (inutile) che dice se si muore in 5 anni

Un prelievo del sangue scopre il rischio in persone che sembrano in salute. Ma sono problemi a cui non c’è rimedio

«Hai giocato abbastanza, abbastanza hai mangiato e bevuto: è tempo che te ne vai». Così Orazio nelle Epistole. Da sempre l’uomo si interroga su quando dovrà morire. Allora il parametro era l’essersi divertiti, l’aver mangiato e bevuto: facili da misurare oltretutto. Oggi per sapere chi ha più probabilità di morire si possono misurare nel sangue proteine dell’infiammazione o livelli di zucchero che però danno indicazioni piuttosto generiche. Con un lavoro appena pubblicato su Plos Medicine c’è un passo avanti. Per farlo si sono messi insieme ricercatori di mezzo mondo, dall’Estonia alla Finlandia, e poi quelli del Massachusetts Institute of Technology, del Children’s Hospital e dell’Università di Harvard a Boston e ancora del Wellcome Trust e della Scuola di Medicina di Bristol. Hanno studiato più di 17.000 persone, a tutte hanno fatto un prelievo di sangue per poi seguirle nel tempo.

LE MOLECOLE – Con un sistema molto sofisticato, la spettrometria a risonanza magnetica nucleare, hanno analizzato contemporaneamente un gran numero di molecole con l’idea di trovarne qualcuna capace di prevedere chi di quelle persone che sembravano sane (ma che forse non lo erano) sarebbe morto anzitempo, nel giro di cinque anni. Alla fine di molecole capaci di prevedere chi sarebbe morto di cuore o di tumore ne hanno trovate almeno quattro, tre di loro già ben conosciute.

IL PUNTEGGIO – E allora cosa hanno fatto di nuovo quei ricercatori? Hanno dato un punteggio a ciascuna delle quattro molecole, dalla somma è venuto fuori un indice («score» dicono i medici): quanto più l’indice è alto tanto più si rischia di morire nel giro di pochi anni (chi quell’indice ce l’ha altissimo rischia 20 volte di più di chi ce l’ha basso o molto basso). Uno dei parametri che partecipano a quello che già è stato chiamato «death test», il test della morte, insomma, è l’albumina. I suoi livelli nel sangue si alterano nelle malattie del fegato o del rene ma anche se c’è un cattivo stato di nutrizione o un’infiammazione cronica. Un altro parametro incriminato è il Vldl: sono lipoproteine a bassa densità che hanno a che fare con le malattie del cuore. Poi ci sono l’Alfa1 glicoproteina acida, che aumenta soprattutto nel cancro, e il citrato, importante per il metabolismo energetico. È chiaro che questi parametri si alterano in conseguenza di certe malattie che poi porteranno a morte, non sono loro causa.

ESAME INUTILE – Lo studio di Plos Medicine è di grande interesse speculativo ma non aggiunge molto a quello che sappiamo già. Per favore adesso non precipitatevi al laboratorio dell’Ospedale più vicino per farvi fare il test dei finlandesi e calcolare lo «score». Non ne vale la pena. Se fosse alto o altissimo non c’è molto che il vostro medico possa fare per proteggervi. Se poi lo «score» fosse basso si correrebbe il pericolo di sentirsi autorizzati a fare qualunque cosa «tanto nei prossimi cinque anni non muoio di sicuro». Non è così. Del resto a farci morire anzitempo sono fattori ben noti: fumo, sovrappeso, troppo alcol, poca attività fisica, una dieta senza frutta e verdura. Niente di originale, lo sanno tutti, ma quanti se ne preoccupano al punto da cambiare le loro abitudini?

Afghanistan, la lotta quotidiana per le cure di base Guarda le foto

il rapporto di medici senza frontiere

Afghanistan, la lotta quotidiana per le cure

Cure mediche non accessibili per molti, nonostante gli aiuti internazionali vadano avanti da più di dieci anni

Dopo più di dieci anni di investimenti e aiuti internazionali, l’accesso alle cure mediche di base e di emergenza in Afghanistan resta fortemente limitato e inadatto a soddisfare i crescenti bisogni causati dal conflitto. Lo rivela il nuovo rapporto di Medici Senza Frontiere. L’assistenza sanitaria è spesso ostentata come una conquista ottenuta grazie agli sforzi internazionali, ma quella cui si assiste non è la storia di un successo. Sebbene dal 2002 siano stati fatti dei progressi nel fornire assistenza sanitaria, il rapporto rivela i rischi gravi e spesso mortali che le persone sono costrette ad affrontare per cercare cure mediche, sia di base che di emergenza. La ricerca – condotta nel 2013 per 6 mesi e con più di 800 pazienti, negli ospedali in cui MSF lavora nelle province di Helmand, Kabul, Khost e Kunduz – mostra che gli afghani sono tuttora privi di un’adeguata assistenza medica.


Afghanistan, la lotta quotidiana per curarsi



  • Afghanistan, la lotta quotidiana per curarsi
       


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LUNGHE DISTANZE – «Un paziente su cinque tra quelli intervistati ha perso un membro della famiglia o un amico, negli ultimi due anni, a causa del mancato accesso alle cure mediche – dichiara Christopher Stokes, direttore generale di Medici Senza Frontiere -. Tra quelli che hanno raggiunto i nostri ospedali, il 40% ci ha detto di aver affrontato combattimenti, terreni minati, posti di blocco o molestie lungo il cammino». La maggior parte dei pazienti ha detto di non aver potuto usufruire, durante una recente malattia, della struttura sanitaria più vicina, ma di aver dovuto percorrere lunghe distanze per cercare le cure, a costi e rischi significativi. «Le persone ci hanno parlato di ospedali privi di farmaci, staff qualificato ed elettricità, e di doversi indebitare sempre di più per pagare i trattamenti – continua Stokes -. Altri ci hanno detto di aver dovuto vegliare sui loro parenti malati o feriti per tutta la notte, sperando di trovarli ancora vivi la mattina dopo, quando raggiungere l’ospedale sarebbe stato sufficientemente sicuro».

PROGETTO FOTOGRAFICO – Le decisioni prese dai governi belligeranti su dove e come fornire assistenza in Afghanistan si sono troppo spesso basate su considerazioni diverse rispetto ai bisogni della gente. «Sebbene l’interesse internazionale verso l’Afghanistan stia diminuendo, MSF vede un conflitto che imperversa ancora in molte parti del Paese, accanto al fallimento nella risposta a bisogni medico-umanitari in aumento» dichiara Stokes. In Afghanistan MSF lavora all’Ospedale Ahmad Shah Baba nella zona orientale di Kabul, e all’ospedale di Boost, a Lashkar Gah, nella provincia di Helmand. L’organizzazione gestisce un centro traumatologico a Kunduz, fornendo cure chirurgiche salvavita nel nord del Paese, e una clinica ostetrica a Khost, nella regione orientale. Il rapporto «Tra retorica e realtà: la continua lotta per l’accesso all’assistenza medica» è anche un progetto fotografico realizzato da Andrea Bruce (NOOR), neo-vincitrice del 2° premio al World Press Photo, e Mikhail Galustov, che hanno visitato quattro progetti MSF in Afghanistan.

Linfonodi ingrossati, quando bisogna preoccuparsi

segnalato da voi

Linfonodi ingrossati, quando preoccuparsi

Una tumefazione linfonodale è un segno che si presta a numerose possibili diagnosi e che non va sottovalutato

Ho 40 anni e da circa 14 giorni ho un lieve dolore nella zona inguinale a destra. Sono stato ricoverato in ospedale tre giorni durante i quali ho effettuato vari esami clinici (tra cui ecografia addome ed inguine, tac con il contrasto, radiografia toracica, emocromo) e mi hanno sottoposto a trattamento antibiotico, che continuo a casa. I medici mi hanno prescritto altre analisi e sembrano non capire da che cosa possa dipendere questo ingrossamento dei linfonodi. Mi sento bene, se non fosse per il lieve fastidio che, di tanto in tanto durante l’arco della giornata, si manifesta all’altezza del mio inguine destro. Di che cosa può trattarsi?

Risponde Pierluigi Zinzani, Direttore Scuola Specializzazione in Ematologia, Università di Bologna

Con il termine linfoadenopatia si intende l’incremento delle dimensioni, clinicamente o radiologicamente rilevabile, di uno o più linfonodi in una qualsiasi delle aree del corpo in cui sono presenti (soprattutto ai lati del collo, a livello toracico sopra le clavicole e all’inguine). Questo aumento di volume non sempre va considerato come manifestazione di una malattia, ma può essere spia importante di molteplici patologie. Una tumefazione linfonodale è, insomma, un segno che si presta a numerose possibili diagnosi differenti: per questo non va mai trascurato e dev’essere immediatamente segnalato al proprio medico. L’adenopatia può infatti essere benigna (come avviene nell’ 80 per cento dei casi nei soggetti al di sotto dei 30 anni) ed essere, ad esempio, solo conseguenza di uno stato infiammatorio generale. Oppure, può essere manifestazione di malattie sistemiche, quali sarcoidosi, Aids, tumori del sangue o metastasi da altre forme di cancro.

Per arrivare alla diagnosi, la storia medica pregressa del paziente è sempre estremamente importante. Ogni stazione superficiale (collo, ascelle, inguini) deve essere attentamente valutata con una visita approfondita, per ipotizzare, prima di procedere con degli esami, se si tratti di una linfoadenopatia localizzata o generalizzata. La consistenza della tumefazione, poi, può dare informazioni fondamentali, perché le patologie maligne di ogni tipo tendono a presentarsi come masse più “dure e aderenti ai tessuti circostanti o sottostanti” (difficile a spiegarsi, ma per una mano esperta la differenza è piuttosto facile da riconoscere), mentre se le linfoadenopatie sono dolorose è molto più probabile che si tratti di processi infiammatori. Per quanto riguarda le dimensioni, in linea generale si può affermare che linfonodi di un centimetro sono nella gran parte dei casi di natura reattiva (cioè infiammatoria), mentre la probabilità che la causa di adenopatia sia una malattia maligna aumenta al di sopra dei due centimetri di diametro.

Ci sono poi alcune indagini di laboratorio che sono di estrema utilità nel processo di valutazione di un’adenopatia. L’esame emocromocitometrico, la sierologia virale e batterica (ad esempio per Citomegalovirus, virus di Epstein Barr, Toxoplasma), la valutazione degli indici di infiammazione – quali VES, proteina C reattiva, ferritina – e di funzionalità epatica e renale, l’elettroforesi delle sieroproteine e la ricerca di autoanticorpi possono orientare la diagnosi. La biopsia linfonodale è un prezioso strumento diagnostico. La decisione di effettuare o meno la biopsia e i tempi in cui eseguirla dipendono essenzialmente dalla storia clinica del paziente e dalla presenza di reperti obiettivi che orientano verso la presenza di una malattia maligna.

A Torino nasce la Società di mutuo soccorso sanitario

a TORINO

Nasce la Società di mutuo soccorso sanitario

Con una card è possibile usufruire di visite specialistiche
ed esami strumentali a costi bassi e senza liste d’attesa

Le società di mutuo soccorso sono associazioni nate nell’Ottocento per sopperire alle carenze dello stato sociale e aiutare i lavoratori in caso di incidenti sul lavoro, malattia o perdita del posto. Oggi il mutuo soccorso torna in auge per un settore che vede grosse difficoltà di accesso da parte di una fetta di cittadini più colpiti dalla crisi: quello sanitario. È nata così a Torino la Società sanitaria di mutuo soccorso (SSMS): una mutua privata che, attraverso un fondo comune e la stipula di convenzioni con enti sanitari pubblici e privati a costi bassi, intende integrare i servizi che né il Servizio sanitario nazionale né le assicurazioni possono garantire. La Società si basa sulla solidarietà tra i soci e offre due tipi di prestazioni: le visite specialistiche e gli esami strumentali, che rappresentano il 70% di tutte le prestazioni sanitarie e per le quali ci sono lunghe liste d’attesa. Inoltre offre sconti su servizi infermieristici e dentistici.

COSTI BASSI – Per l’iscrizione non esistono limiti d’età e non sono richieste visite preventive. La tessera costa 1 euro e dura tutta la vita. Ogni associato può acquistare una card sanitaria (costo: 70 euro all’anno) che dà diritto a usufruire a un numero illimitato di prestazioni mediche e diagnostiche. La card dà diritto a una spesa scontata del 50% sul tariffario della SSMS, che rappresenta a sua volta un tariffario scontato rispetto alle tariffe degli Istituti convenzionati (quattro a Torino, uno a Cuneo, due a Genova e uno a Milano): la maggior parte delle prestazioni ha un costo inferiore a quello del ticket richiesto dal Servizio sanitario nazionale. Sono inclusi esami come risonanza magnetica, TAC, radiologia dentale. La detraibilità fiscale si applica sia all’acquisto delle card che alle prestazioni sanitarie. «In un momento di grandi difficoltà economiche le società di mutuo soccorso offrono la via più efficace e meno costosa per assicurare l’accesso alle prestazioni sanitarie – spiega Ezechiele Saccone, presidente della SSMS -. Inoltre rappresentano un vantaggio sia per i singoli cittadini che per le organizzazioni sanitarie pubbliche, poiché vengono incontro alla domanda di sanità quotidiana e finanziano la prevenzione secondaria».

Immagini choc contro il fumo e spariscono i mini pacchetti

Le regole europee

Foto choc contro il fumo
e spariscono i mini pacchetti

Il commissario Borg: le nuove regole non puntano «a proibire il fumo, ma a dissuadere i giovani dal cominciare»

Dal nostro inviato Ivo Caizzi

BRUXELLES – L’Europarlamento ha approvato a larghissima maggioranza le nuove regole per evitare di cadere nel vizio del fumo, rivolte soprattutto ai giovani. Nonostante le intense pressioni della lobby delle multinazionali del tabacco, è passato l’obbligo di coprire due terzi del pacchetto di sigarette con immagini e messaggi in grado di ammonire sugli altissimi rischi per la salute. Le stime dell’Ue indicano 700mila morti l’anno per malattie legate al fumo. La relatrice del provvedimento, la laburista Linda Mc Avan, ha avvertito che «un fumatore su due muore di cancro». Il commissario Ue per la Salute, il maltese Tonio Borg, ha spiegato che le nuove regole non puntano «a proibire il fumo, ma a dissuadere i giovani dal cominciare»: le stime indicano prima dei 18 anni il momento di inizio del 70% dei fumatori.

Le attuali norme limitavano gli annunci sui pacchetti di sigarette al 30% nella parte anteriore e al 40% in quella posteriore. L’estensione al 65% va applicata su entrambe le parti e impone l’uso di immagini in grado di chiarire efficacemente gli effetti negativi. La vendita delle sigarette elettroniche dovrà essere regolamentata in due modi. Quelle pubblicizzate per aiutare a smettere di fumare saranno considerate come i medicinali. Le altre non potranno avere una concentrazione di tabacco superiore a 20 mg/ml e saranno sottoposte alle restrizioni previste per gli altri prodotti contenenti tabacco.

I lobbisti del fumo sono riusciti a ottenere il rinvio al 2020 per il divieto delle sigarette al mentolo. Ma è passato il principio che l’uso di aromi, in grado di favorire la diffusione del tabacco tra i giovani, va progressivamente eliminato anche nel prodotto da arrotolare con le cartine. Fuori gioco verranno messe le confezioni da 10 sigarette, spesso preferite dai minorenni per motivi economici. Le nuove regole passano ora all’approvazione del Consiglio dei ministri del 14 marzo e dovranno essere attuate negli Stati Ue entro due anni.

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