Archive for January 31, 2014

Fumo «di terza mano»: stessi danni di quello passivo

studio americano

Fumo «di terza mano» in casa e ufficio:
dannoso come quello passivo

Le particelle si attaccano alle superfici degli oggetti e si annidano nella polvere: rischi per fegato e polmoni

Fumo «di terza mano» dannoso per la salute quanto il fumo passivo. A puntare l’indice contro la sigaretta accesa in luoghi chiusi è questa volta uno studio della California University pubblicato su Plos One. Secondo i ricercatori, guidati dalla biologa Manuela Martins-Green, la contaminazione degli ambienti con particelle microscopiche depositate dal fumo delle sigarette è dannosa, a causa delle sostanze cancerogene, quanto il fumo passivo e perfino come quello diretto.

I RISCHI – La tossicità del «fumo di terza mano» è stato dunque accertato per la prima volta sui topi di laboratorio. Il fumo che si posa sulle superfici degli oggetti e si annida nella polvere resiste col passare del tempo diventando, progressivamente, perfino più tossico: la restituzione di nicotina e altre particelle nell’aria delle stanze espone chi ci vive agli stessi rischi del fumo diretto e passivo. «Abbiamo testato sui topi gli effetti del fumo di terza mano negli organi interni, scoprendo che ne colpisce diversi, in particolare fegato e polmoni. Inoltre prolunga la rimarginazione delle ferite e aumenta l’iperattività» afferma Manuela Martins-Green.

Vaccino in cinque giorni grazie al virus «virtuale»

l’annuncio di craig venter

Vaccino anti aviaria in cinque giorni
grazie al virus «virtuale»

Per la prima volta la biologia sintetica è stata usata per produrre un vaccino: risultati positivi nell’uomo

«Star Trek» è la saga spaziale di un’astronave che viaggia ai confini dell’universo. Una delle diavolerie tecnologie di cui dispone l’Enterprise del comandante Kirk è il teletrasporto: un metodo rapido per trasferire esseri viventi e oggetti all’istante da un posto all’altro, anche a chilometri di distanza. L’immagine è quella di una dissolvenza del corpo dal punto di partenza (un’apparecchiatura simile a una doccia) e di un assemblamento nel punto di arrivo. Disgregazione e ricombinazione cellulare. Fantascienza, e tale resterà per molto. Anche se lo scienziato-manager Craig Venter a qualcosa di simile sta lavorando. Un progetto di teletrasporto della vita, il cui primo tassello è in un esperimento andato a buon fine. E di cui ha parlato all’Organizzazione mondiale della sanità.

VACCINO IN CINQUE GIORNI – Per ora virus e vaccini sono l’oggetto delle sue attenzioni. Così da arrivare a un vaccino anti-influenza aviaria prodotto in appena cinque giorni, contro i diversi mesi finora necessari. Craig Venter è lo scienziato americano che nel 2000, per primo, svelò il genoma umano virtualmente, anticipando di qualche anno la codifica reale del puzzle da parte del consorzio internazionale finanziato per tale progetto. E che poi, qualche anno dopo, stupì il mondo annunciando la creazione della prima cellula artificiale. «È la biologia sintetica» dice. Che cosa ha mostrato all’Oms di Ginevra? «Come ottenere un ceppo virale a migliaia di chilometri di distanza e con questo ceppo mettere a punto un vaccino sintetico in 5 giorni, anziché in 2-3 mesi». Il racconto: il giorno di Pasqua 2013 è stata pubblicata su internet dalla Cina la sequenza dei due antigeni di un virus potenzialmente pandemico: l’H7N9, che sta ancora colpendo nel colosso asiatico uomini e pollame.

I GENI DEL VIRUS – Normalmente il virus viene mandato dalla Cina a un centro come i Centers for disease control (Cdc) di Atlanta dove, in alcune settimane di lavoro, viene passato nelle uova e coltivato. Con 2-3 mesi di lavoro si arriva a un virus selezionato ad hoc, che viene consegnato ai produttori di vaccini. La parola a un italiano che di vaccini è intellettualmente leader internazionale: Rino Rappuoli, responsabile globale della Ricerca Novartis vaccines and diagnostics. È il produttore. Il racconto continua. «Questa volta grazie a Venter le cose sono andate in modo molto diverso – dice Rappuoli -. Il lunedì di Pasqua, a partire dai dati pubblicati online, Venter ha sintetizzato i due geni del virus, spedendoli dalla California al nostro laboratorio di Boston. Il martedì questi geni sono stati messi in una cellula, e venerdì si sono viste le prime placche. Sabato il ceppo era pronto per fare il vaccino». Cinque giorni di lavoro in tutto. Testimoni dell’esordio concettuale del teletrasporto biologico. Per ora invio di ordini per fare una copia, un clone. Come dire creare una copia reale a migliaia di chilometri di distanza. Ma la suggestione si accende e, per quanto riguarda pandemie e vaccini, ha infiammato gli esperti Oms. E l’Italia, con Rappuoli, è tra i protagonisti del progetto.

BIOLOGIA SINTETICA – Continua Venter: «È stato emozionante ed è vero. Per la prima volta la biologia sintetica è stata usata per produrre un vaccino, che poi è stato utilizzato nell’uomo e ha dato risultati positivi. È l’inizio del teletrasporto della vita». Testimone Rappuoli: «Siamo stati molto orgogliosi dei risultati e li abbiamo presentati all’Organizzazione mondiale della sanità, dove sono rimasti molto colpiti. In futuro, in caso di pandemia, da un campione ‘virtuale’ si potrà ottenere rapidamente un vaccino, senza dover isolare il virus e doverlo spedire in giro per il mondo». Un risvolto di una notevole importanza perché anche per la sicurezza e per i timori terroristici. Spiega Venter: «Si riducono in un colpo solo i rischi biologici, i problemi produttivi e i tempi necessari per arrivare a un siero». E Rappuoli: «Occorreranno ancora degli anni, ma questo è il futuro».

Il 25% dei russi muore prima dei 55 anni (per troppa vodka)

STUDIO PUBBLICATO SU «LANCET»

Russia, morire giovani per troppa vodka

Un quarto degli uomini muore prima dei 55 anni e la vodka è la principale colpevole. Sotto accusa anche il binge drinking

In Russia si dice Na zdorovie, ovvero «alla salute», ma è chiaro che tutti quei brindisi non fanno per nulla bene alla salute e a colpi di Na zdorovie i russi maschi finiscono per avere una delle aspettative di vita più basse al mondo, con una media di longevità maschile intorno ai 64 anni (contro i 76 degli americani). Il loro difficile rapporto con gli alcolici è stato indagato da uno studio internazionale, che sottolinea come un consumo di tre bottiglie di vodka alla settimana (non così insolito per un maschio russo) si traduca in una percentuale doppia di morire nei prossimi vent’anni. Quelli che bevono meno di una bottiglia hanno invece il 16 per cento di probabilità in più di morte nei prossimi vent’anni, mentre la stessa percentuale per quelli che stanno tra l’una e le tre bottiglie si aggira sul 20 per cento.

FORTI BEVITORI – Un litro e mezzo di vodka alla settimana: sono gli heavy drinkers sovietici, ovvero i forti bevitori, rigorosamente maschi e scientificamente esposti a più fattori di rischio di morte da giovani. Sono molto diffusi nella Russia di oggi come in quella di ieri. E i dati parlano chiaro: un inquietante 25 per cento della popolazione maschile russa muore infatti prematuramente, entro i 55 anni di età, e di questa percentuale un’altissima quota è addebitabile al consumo eccessivo di alcolici che continua a fare strage di uomini.

DATI SIGNIFICATIVI – L’ultimo censimento in materia, risalente al 2011, sosteneva infatti che mediamente un maschio adulto russo ha un consumo di 13 litri annui di alcolici dei quali 8 litri sono in superalcolici (soprattutto vodka), laddove in Gran Bretagna per esempio (che non è nemmeno una delle nazioni più morigerate) il consumo è sui 10 litri annuali, dei quali solo due litri in superalcolici. Tanti litri, troppi evidentemente, tanto da far sì che un maschio russo su 4 non arrivi all’età matura. Incidenti, patologie epatiche, intossicazioni: le cause di morte correlate, più o meno direttamente, alla troppa vodka sono svariate e le hanno individuate e studiate gli studiosi del Russian Cancer Centre di Mosca, i ricercatori della Oxford University britannica e quelli francesi della World Health Organization International Agency for Research on Cancer. Prendendo in esame un campione di 151 mila maschi adulti abitanti in tre differenti città russe (Barnaul, Byisk e Tomsk) e seguendoli per 10 anni, gli scienziati hanno riscontrato un alto numero di decessi tra le famiglie che avevano dichiarato abitudini alcoliche eccessive e una mortalità precoce in generale. Le cifre relative alla patologie imputabili all’alcol sono sempre state alte in Russia, ma negli anni hanno subito oscillazioni significative, a seconda delle strategie dei governi e delle loro politiche sulla vodka.

POLITICHE GOVERNATIVE - Che i superalcolici, e in particolare la vodka, fossero un problema per la Russia era cosa nota. Anzi, le cose sono in miglioramento e le morti premature da vodka sono passate comunque dal 37 al 25 per cento, confermando i risultati positivi di alcune scelte politiche. Se ne accorse, in piena perestroika, già Gorbaciov, che tagliò drasticamente la produzione di vodka e ne vietò la vendita nelle ore mattutine (e questo già la dice lunga). Yeltsin invece interruppe il new deal e inaugurò un periodo all’insegna della vodka libera che, unitamente a un momento difficile di riconversione del regime, si tradusse presto in una nuova ondata di decessi alcolici.

IL BINGE DRINKING – Sotto accusa, oltre alla tradizione russa, è anche il fenomeno del binge drinking, che non riguarda certo solo la Russia bensì coinvolge trasversalmente i giovani di tutto il mondo (o quasi). Si tratta di una sorta di abbuffata alcolica che si traduce nel consumare cinque o più bevande in un ridotto intervallo di tempo. Va bene tutto, dalla vodka alla birra, l’importante è raggiungere l’obiettivo unico e indubbio: l’ubriacatura immediata. E’ il nuovo sballo del sabato sera, diffuso tra ragazzini sempre più giovani che cercano di sembrare grandi e l’Italia non ne è immune. Nel nostro Paese infatti il primo approccio con le bevande alcoliche avviene in età molto precoce e secondo l’indagine internazionale HBSC, svolta in collaborazione con l’OMS sui comportamenti dei ragazzi in età scolare di 40 Stati europei, i ragazzi italiani tra gli 11 e i 15 anni sono ai primi posti per il consumo settimanale di alcol.

COSE DA MASCHI – L’altro dato da notare è che l’amore per la vodka rimane una questione soprattutto maschile nella Russia del terzo millennio e almeno in questo aspetto i due sessi non si stanno allineando. Sono i maschi che bevono, in un Paese dove la vodka ha ancora un forte valore simbolico, collegata a riti di iniziazione maschile e a un aplomb virile e giustificata dalla vecchia e dubbia questione del troppo freddo e della necessità di riscaldarsi.

Tumori infantili, centri di cura italiani ancora più efficaci

Organizzati come «raggi di una ruota»

Tumori infantili, centri di cura più efficaci

In Italia guarisce oltre l’80% di giovani colpiti da cancro e leucemie Terapie complesse centralizzate

I pionieri della pediatria italiana ebbero quarant’anni fa un’intuizione fondamentale: per combattere con efficacia le neoplasie dei bambini occorreva costruire una rete di Centri in grado di garantire livelli omogenei di cura su tutto il territorio. Ci sono riusciti, grazie all’attività dell’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop). Ad oggi, sono 53 le strutture riconosciute dall’associazione scientifica che condividono i protocolli di cura internazionali più efficaci e le terapie più innovative (GUARDA).

Non solo: l’Aieop è riuscita anche a creare un registro di diagnosi dei tumori e per la maggior parte delle patologie sono stati identificati laboratori centralizzati di riferimento per conferme diagnostiche o caratterizzazioni molecolari. Attraverso questo lavoro di cooperazione, la speranza di guarigione per i bambini e gli adolescenti colpiti da tumori e leucemie in Italia è passata da circa il 30 per cento a oltre l’80 per cento. Il problema, adesso, è come diminuire ulteriormente il numero dei pazienti che non riesce a guarire. Questione di terapie, certo, ma anche di miglioramento dell’organizzazione. «Con i protocolli e con la centralizzazione e revisione delle diagnosi è stato garantito uno standard assolutamente accettabile – spiega Andrea Biondi, presidente Aieop e direttore del Dipartimento di pediatria dell’ospedale S. Gerardo/Fondazione MBBM (Monza e Brianza per il bambino e la sua mamma) di Monza -. Ora però ci chiediamo se siano davvero necessari così tanti Centri».

In Europa la questione della riorganizzazione delle reti dell’oncologia pediatrica si sta affrontando sostanzialmente con l’adozione del modello “hub and spoke” (mozzo e raggio di una ruota), che prevede uno o più Centri di riferimento per le patologie più complesse e ospedali periferici fortemente integrati con i primi, modulato a seconda delle dimensioni del territorio. «Ma per questo c’è bisogno di un progetto complessivo, di una visione – aggiunge Biondi -. Nell’ultimo Piano oncologico nazionale, l’oncologia pediatrica è stata inserita in extremis solo perché Maura Massimino, responsabile dell’Oncologia pediatrica dell’Istituto Tumori di Milano, ha fatto presente a Roma che di noi non c’era traccia. Questo la dice lunga su quale attenzione ci sia al problema».

In effetti, solo Piemonte e Veneto hanno una rete hub and spoke ufficialmente riconosciuta. Come funziona? «Nel nostro reparto viene fatta la diagnosi e impostato il protocollo terapeutico del paziente – dice Franca Fagioli, direttore della divisione di Oncoematologia pediatrica all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino -. Negli spoke di secondo livello sono eseguiti anche alcuni cicli di chemioterapia, ma il tutto è consolidato in istruzioni operative. In tutti gli altri spoke di primo livello si fa il supporto di base e sono seguiti bambini anche in fase avanzata di malattia e nel follow up. Tutti i protocolli di diagnosi e cura, tutti gli studi clinici, partono dal nostro ospedale, tramite il nostro Comitato etico e sono validati anche dalle altre strutture. Questo presuppone che il personale dei centri spoke, medico e infermieristico, sia formato da noi». Di eccessiva parcellizzazione dei Centri, motivata però dal progetto iniziale di Aieop di cercare di garantire i migliori trattamenti nel luogo più vicino al domicilio del paziente, parla anche Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di onco-ematologia pediatrica e medicina trasfusionale dell’ospedale Bambino Gesù di Roma.

«Nel miglior interesse del bambino, credo che oggi il giusto compromesso possa essere questo – dice Locatelli -: i trattamenti meno impegnativi, più facilmente erogabili, possono certamente continuare ad essere dispensati nelle sedi più vicine. I trattamenti più complessi, il trapianto, lo sviluppo di nuovi farmaci, la terapia dei pazienti ricaduti o comunque ad alto rischio di complicanze, è meglio centralizzarli secondo il modello hub and spoke». Come nel resto della sanità, anche per i tumori infantili bisogna però tenere conto delle differenze territoriali. Nonostante la crescita dell’oncoematologia pediatrica sia sul piano dell’offerta che della qualità delle cure, il Sud infatti soffre ancora di un fenomeno di migrazione sanitaria verso il Centro e il Nord Italia, compresa tra il 20 e il 25% dei pazienti.

«Ma una certa quota di migranti è inevitabile – sottolinea Paolo D’Angelo, responsabile dell’Oncoematologia pediatrica all’ospedale Civico di Palermo -. Da noi, oltre al contingentamento delle neurochirurgie infantili, è assolutamente carente la chirurgia ortopedica ricostruttiva pediatrica che viene fatta sostanzialmente a Bologna, Firenze e Milano. I tumori dell’osso sono trattati solo in questi Centri, quindi i pazienti devono farsi curare là». L’oncoematologia pediatrica deve fare i conti con un’altro problema: «Noi italiani siamo citati in tutto il mondo come organizzazione – dice Giuseppe Basso, responsabile dell’Oncoematologia all’ospedale di Padova -. Questo però è reso possibile dal fatto che a pagare sono le associazioni dei genitori e dei familiari. Non è ammissibile andare avanti con i privati che finanziano ciò che dovrebbe finanziare il Servizio sanitario nazionale. Dal punto di vista politico, lo sforzo economico non sarebbe travolgente».

Flora intestinale, varia velocemente se si modifica la propria dieta

STUDIO STATUNITENSE

Flora intestinale, come varia cambiando la dieta

A seconda dei cibi che mangiamo si modificano le specie e il metabolismo dei batteri, con implicazioni sulla salute

Siamo davvero ciò che mangiamo, e pure i batteri che convivono con noi “sono” quel che mettiamo in bocca. Cambiare tipo di alimentazione modifica infatti velocemente, molto più velocemente del previsto anche la flora batterica intestinale, il cosiddetto “microbioma”: chi diventa vegetariano già dopo 24 ore ha nell’intestino batteri completamente diversi da quelli di quando era carnivoro, l’inverso succede a chi riporta in tavola la carne dopo un’alimentazione a base di vegetali. Un dato già noto per gli animali da esperimento, dimostrato ora anche nell’uomo grazie a una ricerca dell’università di Harvard pubblicata su Nature.

STUDIO – Peter Turnbaugh, del Center for System Biology dell’ateneo statunitense, ha chiesto a undici volontari di cambiare dieta dopo aver dettagliatamente registrato la loro consueta alimentazione e valutato la tipologia di flora intestinale presente: per cinque giorni i partecipanti hanno seguito un regime vegetariano a base di frutta, verdura, legumi e riso, poi sono tornati alla dieta usuale per sei giorni, quindi per altri cinque giorni hanno consumato prevalentemente carne, salumi, uova e formaggi (quindi non una dieta “normalmente onnivora”, bensì fortemente sbilanciata verso i cibi animali). Ogni giorno i ricercatori hanno esaminato la flora batterica intestinale per identificare il materiale genetico delle specie presenti e la loro attività metabolica. I risultati sono stati molto evidenti, come spiega Turnbaugh: «Il cambiamento della flora è consistente specialmente quando si passa da una dieta vegetariana a una che abbondi di alimenti derivati dagli animali: bastano poche ore per veder mutare l’abbondanza relativa di diverse specie. Ad esempio aumenta moltissimo la quantità di Bilophila wandsworhia, un batterio che si “nutre” degli acidi biliari e aiuta nella digestione dei grassi saturi presenti nei latticini e che però, almeno nei roditori, è implicato nella comparsa di malattie infiammatorie croniche intestinali».

CAMBIO DIETA – Al contrario, il passaggio a un’alimentazione vegetariana in poco tempo accresce le colonie di batteri in grado di produrre l’acido butirrico, che ha un ruolo protettivo nei confronti dell’infiammazione. «Se ci nutriamo soprattutto di vegetali i batteri devono trarre la loro energia principalmente dalla fermentazione dei carboidrati, mentre nella dieta che comprende cibi animali i microbi si alimentano soprattutto metabolizzando le proteine – spiega Turnbaugh -. La capacità di cambiare metodo di “approvvigionamento” dell’energia aiuta i batteri a sopravvivere ogni volta che l’ospite-uomo cambia alimentazione. Apparentemente la dieta che include proteine animali sembra modificare la flora verso il peggio, ma ancora non abbiamo sufficienti informazioni per sapere quale alimentazione sia ottimale per la flora intestinale». I cambiamenti della microflora si associano ovviamente a modifiche nella quantità e qualità dei prodotti del loro metabolismo: «In entrambe le diete, vegetariana e animale, abbiamo verificato alterazioni nell’espressione di numerosi geni batterici e modifiche significative nelle sostanze prodotte dai microrganismi, come gli acidi grassi a catena corta, nel giro di appena tre o quattro giorni», dice l’esperto.

EFFETTI SULLA SALUTE – Tutto ciò può contribuire a spiegare perché l’alimentazione influenzi così tanto la nostra salute: il butirrato ad esempio sembra ridurre il rischio di tumore al colon favorendo l’auto-distruzione delle cellule cancerose e rendendo al contempo più sane e “forti” le cellule dell’epitelio intestinale; batteri come Bilophila, invece, potrebbero aumentare il rischio di colite. I dati statunitensi, inoltre, aiutano anche a spiegare perché nei pazienti con sindrome metabolica o negli obesi la flora intestinale risulti “sballata” e abbia un metabolismo alterato: la dieta spesso inadeguata di questi soggetti potrebbe portarli ad avere un microbioma in qualche modo “negativo” per la salute generale. Va detto che quando i volontari sono tornati alla loro dieta abituale, la flora intestinale si è modificata altrettanto velocemente tornando alle caratteristiche che aveva all’inizio: una plasticità che secondo Turnbaugh è molto utile ai batteri, che devono adattarsi in poco tempo a trarre energia da qualunque cibo decidiamo di mangiare. «L’implicazione più interessante di tutto questo è che un giorno potremo forse sapere esattamente come modificare la nostra alimentazione per “modellare” il nostro microbioma così da migliorare la nostra salute – dice il ricercatore -. Spesso ci riferiamo al microbioma come al nostro “secondo genoma”, vista l’abbondanza dei batteri che convivono con noi nell’intestino: ebbene, questo secondo genoma è potenzialmente plastico e “risponde” al modo in cui decidiamo di vivere la nostra vita. Sfruttare questa conoscenza a nostro vantaggio potrebbe aiutarci a rimanere sani più a lungo».

Cancro, farmaci salvavita: ritardi e leggi inapplicate

CONVEGNO ALLA CAMERA

Farmaci anticancro salvavita:
ritardi e leggi non applicate

Medici e pazienti chiedono la soluzione di vecchi problemi:
la trafila burocratica infinita che una cura deve seguire
prima di arrivare al malato e le disparità fra Regioni

Malati di tumore e oncologi tornano a far sentire la loro voce in sede istituzionale per un problema tutt’altro che nuovo, ma ancora irrisolto. I farmaci anticancro salvavita dovrebbero essere subito disponibili su tutto il territorio nazionale, ma oggi non è così e ci sono regioni che hanno ritardi di oltre quattro anni rispetto a quanto stabilito dalla legge. Per questo l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), la Società Italiana di Ematologia (Sie) e la Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo) hanno presentato alla Commissione Igiene e Sanità del Senato e alla Commissione Affari Sociali della Camera un documento programmatico con due proposte da attuare in tempi brevi, illustrate al convegno «Farmaco e sostenibilità nella cura del paziente oncologico» alla Camera dei Deputati. Medici e pazienti chiedono, da un lato, che l’accesso immediato a tutti i farmaci salvavita e non solo a quelli considerati innovativi (che possa essere quindi essere considerata la rimodulazione del Decreto Balduzzi). Dall’altro, reclamano l’attivazione di uno stretto monitoraggio sul rispetto del termine dei 100 giorni per l’esame delle terapie innovative da parte dell’Aifa.

NON È (SOLO) UN PROBLEMA DI COSTI – Secondo l’ultima indagine svolta da Aiom, in alcune Regioni si registrano ancora ritardi di 50 mesi prima dell’inserimento nei prontuari locali delle terapie innovative che hanno già ottenuto il giudizio positivo dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco). La grave situazione, già denunciata due anni fa, non è migliorata. Inoltre l’esame da parte dell’agenzia regolatoria per la registrazione dei nuovi farmaci deve avvenire in tempi certi, senza dilazioni: la legge che stabilisce il termine dei 100 giorni non è applicata. Nel nostro Paese 2 milioni e 800mila persone vivono con una diagnosi di tumore e i nuovi casi registrati nel 2013 sono stati 366mila. «Siamo consapevoli – afferma Stefano Cascinu, presidente Aiom – che il contenimento dei costi rappresenti una priorità e noi siamo pronti a fare la nostra parte. Non possiamo però accettare l’idea di porre la spesa farmaceutica oncologica come l’origine di tutti i problemi. L’impatto economico per le terapie antitumorali è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi anni». Inoltre, sebbene le terapie oncologiche rappresentino il 25 per cento della spesa ospedaliera per i medicinali, i farmaci anticancro incidono solo sul quattro per cento sul totale dei costi sostenuti da un ospedale.

CENTO GIORNI NON BASTANO – Dopo aver superato i necessari (e inevitabilmente molti) passaggi perché un farmaco venga testato scientificamente e si riveli efficace, si apre l’altrettanto lunga trafila burocratica perché tutti i farmaci ospedalieri, compresi gli antitumorali, devono completare una serie di passaggi prima di essere disponibili per i pazienti. L’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC) viene rilasciata, nell’Unione Europea, dal Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP) dell’European Medicines Agency (EMA). Il passo successivo è il recepimento, da parte dell’Italia, delle AIC autorizzate dall’EMA che passano per un’apposita commissione dell’Aifa, che valuta anche la rimborsabilità della molecola, ne decide il regime di dispensazione (fascia A, C, H) e negozia il suo prezzo con il produttore. Ma i tempi dell’Aifa sono troppo lunghi: trascorrono in media 12-15 mesi perché un nuovo farmaco riceva l’ok dall’agenzia italiana. «Per superare questi ritardi – spiega Francesco Cognetti, presidente della Fondazione Insieme contro il cancro -, il governo Letta lo scorso luglio ha stabilito l’obbligo per l’Aifa di valutare le domande dei farmaci innovativi entro un periodo massimo di cento giorni. Ma questa legge, allo stato attuale, non sembra sia applicata né applicabile. Chiediamo che il Parlamento si attivi per monitorare, il rispetto di questa legge. Altrimenti vanno fissati termini diversi, ma certi».

TRAFILA BUROCRATICA INFINITA – Dopo il passaggio dall’Europa (EMA) all’Italia (Aifa) un farmaco ospedaliero, prima di essere fisicamente disponibile nelle strutture sul territorio, deve completare un iter ulteriore, che può variare non solo da regione a regione, ma anche all’interno delle singole Aziende sanitarie locali. Quindi, tra l’autorizzazione nazionale e l’effettiva possibilità di utilizzo si possono interporre commissioni di vario livello, responsabili dei vari prontuari, con potere di filtro o di blocco. La faccenda dunque si complica perché esistono commissioni regionali, locali e aziendali che possono decidere in maniera autonoma e creare disparità nell’accesso ai farmaci per i cittadini di regioni diverse o anche nell’ambito della stessa regione, se afferenti a aziende sanitarie e ospedali diversi. In questo iter, il numero dei farmaci effettivamente disponibili per i cittadini può restringersi: di regola, una commissione non può inserire nel proprio prontuario un farmaco non autorizzato dall’Aifa, ma può invece decidere di escluderne uno. Lo stesso, con poche eccezioni, accade lungo tutta la trafila fino al singolo ospedale.

BATTAGLIA VINTA SOLO SULLA CARTA – «Tutto questo crea enormi ritardi e complicazioni che sono particolarmente sentiti soprattutto in ambito oncologico, visto che si tratta di malattie gravi, con la legittima richiesta dei pazienti di poter usufruire delle terapie innovative nel minor tempo possibile – sottolinea Cascinu -. Le varie commissioni regionali spesso non sono altro che inutili duplicati dell’agenzia regolatoria europea e di quella italiana: il terzo livello di approvazione deve essere eliminato». L’ostacolo pareva risolto con il cosiddetto Decreto Balduzzi (D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazione dalla Legge 8 novembre 2012, n. 189). «Questo provvedimento – spiega Francesco De Lorenzo, presidente Favo – avrebbe dovuto eliminare le precedenti, inaccettabili disparità di trattamento nelle varie regioni e assicurare ovunque la disponibilità dei farmaci innovativi, riducendo la mobilità interregionale. Ma, ad oggi, tutte le diseguaglianze denunciate negli anni precedenti non sono state risolte. La battaglia è stata vinta solo sulla carta, con la conseguenza che le regioni continuano a limitare l’accesso alle terapie salvavita, indipendentemente dall’approvazione dell’Aifa. La mancata applicazione del decreto dipende da un’interpretazione limitativa del concetto di innovatività. Di fatto l’agenzia regolatoria non attribuisce questo requisito ai farmaci salvavita già in commercio». Quanto costino davvero, per i malati, le lungaggini burocratiche e la mancanza di leggi appropriate appare lampante con un solo esempio: «L’ematologia ha aperto più di 10 anni fa la strada ai cosiddetti farmaci intelligenti – conclude Fabrizio Pane, presidente Sie -. Le innovative terapie mirate hanno rivoluzionato in pochi anni la cura della leucemia mieloide cronica, che prima non lasciava scampo, mentre oggi guarisce il 90 per cento dei pazienti».

Stamina, Nature attacca Ferrari «Riapertura dibattito preoccupante»

PUBBLICATA LA LETTERA DI QUATTRO SCIENZIATI ALLA LORENZIN

Stamina, «Nature» attacca Mauro Ferrari

Sotto accusa le parole del presidente del nuovo comitato a
«Le Iene»: «Riapertura del dibattito preoccupante»

Mauro Ferrari, presidente del Methodist Hospital Research Institute di HoustonMauro Ferrari, presidente del Methodist Hospital Research Institute di HoustonIl caso Stamina torna a far parlare di sé sulle colonne di Nature, la principale rivista scientifica mondiale. Questa volta ad essere citate sono le dichiarazioni di Mauro Ferrari, presidente del nuovo comitato chiamato a valutare il «metodo», al programma Le Iene. Nella puntata del 22 gennaio Ferrari ha dichiarato in un’intervista che il metodo Stamina è «il primo caso importante di medicina rigenerativa in Italia», e che può offrire all’Italia «l’opportunità di diventare leader nel portare queste terapie dai laboratori alle cliniche». Affermazione che il direttore del Centro di medicina rigenerativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia Michele De Luca definisce, sempre su Nature, «un insulto ai tanti ricercatori che in Italia lavorano per trasferire la ricerca sulle staminali in nuove applicazioni cliniche».

LA LETTERA – La rivista cita la nota congiunta – inviata al ministro Lorenzin – firmata da Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, Giuseppe Remuzzi, direttore del Mario Negri di Bergamo, Gianluca Vago, rettore dell’università Statale di Milano e Alberto Zangrillo, primario di anestesia al San Raffaele di Milano e presidente della seconda sessione del Consiglio Superiore di Sanità, in cui gli scienziati si dicono «estremamente preoccupati» per le parole di Ferrari, giudicate «un gravissimo errore». «La riapertura del dibattito è profondamente preoccupante – ribadisce su Nature George Daley, direttore del programma sulle staminali del Children’s Hospital di Boston -. Non conosco Ferrari personalmente, ma il dibattito su Stamina sta emergendo come la linea del fronte in una battaglia contro dei protocolli clinici estremamente rischiosi».

«NON HA I REQUISITI» – Altri ricercatori, prosegue Nature, rilevano che «Ferrari non ha i requisiti per guidare un comitato chiamato a valutare un protocollo clinico». Lo studioso, presidente del Methodist Hospital Research Institute di Houston, «si descrive come un ricercatore-imprenditore, fa parte di numerose aziende ed è laureato in Matematica e Ingegneria meccanica», si legge. A Nature Ferrari «ha dichiarato che il ministro lo ha invitato per la sua competenza sia come scienziato sia come amministratore esperto in campo scientifico e che il ministro era stato informato circa i suoi interessi commerciali, che non hanno relazioni con la medicina legata alle cellule staminali».

LORENZIN – Sul fronte politico, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin continua a ribadire le difficoltà nel formare il nuovo comitato dopo l’ordinanza del Tar del Lazio che il 6 dicembre ha sospeso il primo comitato di esperti. «La situazione è complicata, non possiamo rischiare di fare un nuovo comitato che si esprima e sia poi soggetto a un nuovo ricorso – spiega Lorenzin -. Tutti i singoli nomi passano al vaglio dell’Avvocatura dello Stato e del Tar per verificare preventivamente che non ci siano elementi che possano dare adito a possibili ricorsi. È difficile trovare uno scienziato che non si sia già espresso sulla vicenda». E su Ferrari: «È stato indicato come presidente, ma pregherei tutti di mantenere in questa vicenda il massimo riserbo e pudore».

«DIFENDERE IL SSN» – La Lorenzin ha poi fatto proprio l’allarme lanciato mercoledì dal comandante dei Nas Cosimo Piccinno, durante l’audizione in Senato. «Casi simili a Stamina possono nascere ogni giorno e quindi dobbiamo costruire dei sistemi di difesa del Servizio sanitario nazionale – ha detto il ministro -. Guardo con viva attenzione e preoccupazione a quanto sta emergendo a Torino e dall’indagine conoscitiva». In questi giorni Beatrice Lorenzin ha avuto modo di parlare anche con i medici degli Spedali Civili di Brescia, al centro della vicenda Stamina, e in particolare con Raffaele Spiazzi, il direttore sanitario dell’Ospedale dei Bambini. «Hanno manifestato la propria preoccupazione e il disagio per le condizioni di lavoro a Brescia». Uno degli argomenti trattati è stato il «problema deontologico che hanno sempre sollevato nei confronti dell’Ordine – ha aggiunto – perché hanno somministrato per anni un prodotto senza sapere cosa contenesse».

Fondi ai migliori progetti di ricerca Il San Raffaele al primo posto

Rapporto del ministero della Salute online

Fondi ai migliori progetti di ricerca
Il San Raffaele al primo posto

Stanziati 130 milioni: il 14% assegnato all’istituto milanese. Premiato il Nord. Calabria esclusa per errori tecnici

L’ospedale San Raffaele (Imagoeconomica)L’ospedale San Raffaele (Imagoeconomica)Il buco di un miliardo e mezzo, i fornitori non pagati, il rischio di fallimento, il suicidio dell’ex vicepresidente Mario Cal, braccio destro di Don Verzè che morirà poco dopo. E ancora, l’asta indetta dal Tribunale di Milano. Poi il salvataggio del gruppo Rotelli che in sette mesi di gestione ha dimezzato il disavanzo di 65 milioni scoperto solo dopo aver vinto l’asta. Anni terribili, il 2011 e il 2012, per il San Raffaele. Eppure la ricerca non si è fermata. La macchina sbandava e all’interno dell’abitacolo i piloti mantenevano il controllo. La prova è il rapporto finale sui finanziamenti assegnati dal Ministero della Salute con un bando aperto a tutti gli «operatori del servizio sanitario nazionale» (GUARDA). Da solo l’ospedale assorbe con 43 progetti il 14% dei 130 milioni stanziati e nella classifica dei più premiati è al primo posto con netto distacco rispetto ai concorrenti. Il risultato del lungo lavoro di selezione, che ha visto coinvolti migliaia di arbitri stranieri, è stato pubblicato sul sito del Ministero (LEGGI IL PDF).

Su 4000 progetti presentati, 372 hanno ricevuto sostegno economico, con una decisa prevalenza di studi di base, cioè quelli che non riguardano il malato direttamente ma aprono la strada alla sperimentazione clinica. La maggior parte dei fondi è stata destinata allo studio di malattie oncologiche e neurologiche ma anche di disturbi metabolici e cardiovascolari. Al bando hanno partecipato tutti gli attori della nostra sanità, unica esclusa la Calabria che ha commesso errori tecnici nell’invio del materiale. Salta agli occhi la prevalenza dei centri del Nord (174 progetti) seguito dal Centro (132). Alle spalle del San Raffaele, con 44 progetti, si piazzano Toscana, Istituto superiore di sanità, Emilia Romagna. Dunque Santa Lucia di Roma, Ieo, Humanitas, Maggiore di Bologna e l’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Una parte dei finanziamenti, circa 50 milioni, sono andati ai giovani ricercatori sotto i 40 anni.

La soddisfazione di Alberto Zangrillo, vicepresidente della commissione nazionale ricerca sanitaria, riguarda soprattutto il metodo che ha permesso di arrivare ai più meritevoli: «È stato applicato il modello vincente della peer rewiew (valutazione tra pari, ndr )internazionale: ovvero il metodo della valutazione indipendente da parte di scienziati,in larga maggioranza stranieri, che giudicano la qualità degli studi senza conoscere l’autore. L’obiettivo del bando è promuovere l’applicazione clinica». La novità è che l’Italia sarà l’unica a pubblicare il rapporto finale su internet per completare un percorso di trasparenza avviato nel 2009. In questo Paese guardato con sospetto anche dai cittadini sembra che qualcosa di buono, impermeabile alle spinte e alle raccomandazioni, si riesca a realizzare. La valutazione tra pari funziona così. Ogni giudice straniero riceve 10 progetti concorrenti indicati con un codice, dunque non può sapere a chi appartengono. Così l’esaminatore è autonomo e indipendente.

In una seconda fase i revisori si confrontano e agli studi viene attribuito un punteggio fino ad ottenere una classifica. Solo alla fine si scopre l’identità di chi ha avuto la meglio. Questo sistema riguarda i fondi a disposizione del ministero della Salute, l’1% del fondo sanitario nazionale. Purtroppo manca in Italia un quadro d’insieme. Nessuno sa quanti soldi nel complesso vengano erogati per la ricerca sanitaria da altre fonti (ad esempio ministero dell’Università, Regioni o Unione Europea o associazioni private tipo Telethon). Un lavoro di ricostruzione è stato appena avviato e richiederà molto tempo. Sarebbe importante mettere tutto in rete in modo da unire le forze verso obiettivi comuni e razionalizzare.

Ristorante Xfood, idea di successo: personale disabile e prodotti km zero

Cucinare o assistere lo chef, servire ai tavoli, coltivare l’orto. Un ristorante con prodotti a chilometri zero gestito da persone con disabilità all’insegna dell’inclusione e dell’innovazione sociale. Primo in Puglia, aprirà a fine febbraio in provincia di Brindisi, grazie al progetto “XFood” che prevede un percorso integrato di orientamento, formazione, e job coaching mirato all’inserimento lavorativo. Promosso dal Centro culturale “ExFadda” e dal Consorzio di cooperative sociali “Nuvola”, ha il sostegno della Regione Puglia per quel che riguarda la formazione e il tirocinio. I locali sono collocati all’interno del Centro “Ex-Fadda”, uno spazio ricavato dal recupero di ambienti di un ex stabilimento enologico a San Vito dei Normanni, dove sono già attivi un centro ludico per la prima infanzia, un laboratorio per la fotografia e gli audiovisivi, una falegnameria, una scuola di musica, una galleria per l’artigianato, laboratori artistici, spazi per l’associazionismo locale, uno spazio eventi all’aperto e un bar.

«QUALCOSA DI DIVERSO» – « Nel primo anno di sperimentazione saranno coinvolte 32 persone con disabilità soprattutto intellettiva – spiega uno dei promotori dell’iniziativa, Roberto Covolo -. Il personale sarà impiegato in cucina, nel servizio in sala, nella gestione e nella manutenzione dell’orto. La nostra è una scommessa: vogliamo dimostrare che, anche in un periodo in cui il welfare è “sotto attacco”, è possibile utilizzare il lavoro come strumento di inclusione sociale». In questi giorni stanno terminando i lavori di recupero e allestimento degli spazi. Anche l’allestimento del ristorante è all’insegna della diversità: non una sedia uguale all’altra, né un tavolo o un piatto. Gli arredi sono il risultato di cantieri di restauro, falegnameria e sartoria di maestranze locali con la partecipazione dei ragazzi del progetto e dei cittadini.

FORMAZIONE E TIROCINIO – Si stanno concludendo anche i corsi di formazione del personale, che usufruirà di borse lavoro: dalla coltivazione alla formazione ai fornelli, al servizio ai tavoli. Ma non si tratta soltanto di sviluppare competenze relative all’assunzione di ruolo e allo svolgimento della mansione. Sono previsti, infatti, progetti personalizzati rivolti ai singoli destinatari, condivisi e concordati con il care-group che accompagna normalmente la persona con disabilità nel suo percorso di vita (servizi territoriali, famiglia, medici), ma anche percorsi di formazione per gruppi di utenti per favorire, anche attraverso il confronto nel gruppo di “pari”, lo sviluppo di alcuni pre-requisiti come l’essere autonomi, le capacità personali e relazionali. Man mano, poi, viene gradualmente ridotto l’affiancamento dell’operatore sul posto di lavoro.

IN ALTRE CITTÀ – L’esperienza pugliese, dedicata all’inserimento lavorativo di persone con disabilità, s’ispira ad alcune analoghe che in questi ultimi anni si sono diffuse in altre città italiane nell’ambito del terzo settore: si tratta di imprese a carattere ristorativo che, superando l’approccio assistenzialistico, mirano a garantire un lavoro “normale” a chi ha una disabilità.

Maria Giovanna Faiella30 gennaio 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA

Contro le crisi epilettiche ci sono delle tecniche nuove

per chi «resiste» ai farmaci

Contro le crisi epilettiche ci sono tecniche nuove

Destinate soprattutto ai giovani e bambini. Va individuato con precisione il focolaio, che deve essere singolo e stabile

Dal nostro inviato Adriana Bazzi

Obiettivo: spegnere il fuoco sotto la pentola che bolle. La pentola che bolle è la crisi epilettica. È quello che i neurochirurghi tentano di fare quando le terapie non funzionano più. Oggi l’epilessia, nelle sue diverse forme, può essere tenuta sotto controllo grazie ai farmaci che qualche volta riescono addirittura ad azzerare le crisi; in ogni caso, però, non guariscono la malattia. Ma ci sono anche forme che diventano via via resistenti alle medicine: è qui che entra in gioco la chirurgia (GUARDA). A un patto: che si individui con estrema precisione il focolaio epilettogeno, e cioè la zona del cervello da cui hanno origine le crisi, e che questo sia singolo e stabile. Ecco allora che un intervento chirurgico può eliminare il focolaio, permettere una guarigione e, in molti casi, una vita senza farmaci. Oggi la chirurgia dell’epilessia è in espansione, grazie anche all’introduzione delle metodiche di neuroimaging che permettono di «fotografare» con estrema precisione l’attività del cervello, e si rivolge soprattutto ai giovani e ai bambini, come è stato sottolineato anche a Washington, all’ultimo congresso dell’American Epilepsy Society.

«Oggi i neurologi stanno mettendo su un piatto della bilancia i rischi di crisi epilettiche incontrollate e sull’altro quelli della chirurgia. Per valutare da che parte pende – ha detto Howard L. Weiner del New York University Langone Medical Center -. Il rischio di recidive, in un paziente epilettico, aumenta del 2 per cento l’anno e i bambini possono avere conseguenze importanti sul loro sviluppo psicofisico dovute sia alle crisi sia alle terapie. Ecco perché si pensa sempre più all’intervento». La caccia al focolaio presuppone una serie di indagini molto sofisticate. «Tradizionalmente – spiega Giorgio Lo Russo direttore della Chirurgia dell’epilessia all’Ospedale Niguarda di Milano – le valutazioni si basano sullo studio clinico dei sintomi, su quello neurofisiologico con l’elettroencefalogramma (Eeg) e sulle indagini di neuroimaging con la risonanza magnetica, ormai imprescindibili. Grazie a queste valutazioni riusciamo a individuare i casi da inviare in sala operatoria».

Ma ci sono situazioni più complesse, in cui è difficile identificare la lesione: ecco allora che si può ricorrere allo Stereo-Eeg: un’indagine per la quale il centro di Niguarda è all’avanguardia. Ideata dal neurochirurgo inglese Victor Horsley, è stata introdotta in Italia da Claudio Munari (cui è dedicato il Centro di Niguarda) e perfezionata, tanto che alla struttura milanese si rivolgono anche molti pazienti stranieri. «Questa metodica – continua Lo Russo – viene eseguita con tecniche stereotassiche che consentono di impiantare, con un casco speciale, elettrodi in profondità nel cervello. Questi elettrodi sono in grado di registrare crisi spontanee, possono anche provocarle e riescono a individuare la zona epilettogena». Per ora lo Stereo-Eeg serve per la diagnosi, ma se un elettrodo si trova in contatto con la zona da cui ha origine la crisi, ecco che si possono inviare radiofrequenze per distruggerla. E diventa così una nuova opportunità terapeutica, anche se per casi molto selezionati. La chirurgia più diffusa rimane comunque quella classica, che prevede l’apertura del cranio e la resezione del focolaio o il suo isolamento in modo che non invii più impulsi al resto del cervello.

L’alternativa è la radiochirurgia che sfrutta il cyberknife, il bisturi invisibile fatto di un fascio di radiazioni che «bruciano» la zona epilettogena. Non richiede l’apertura del cranio, ma è forse meno precisa della mano del chirurgo. E comunque il raggio attraversa zone sane del cervello ed è per questo che occorre valutare possibili effetti a distanza. La tecnica può trovare indicazione in situazioni (come per esempio una cardiopatia del paziente) che sconsigliano l’intervento tradizionale. E ancora sul versante tecnologico, a Washington è stato presentato un neuro stimolatore impiantabile, chiamato NeuroPace Rns System, che intercetta attività anomale del cervello e interviene con stimoli elettrici di bassissima intensità capaci di riportare l’attività cerebrale nella norma e di prevenire gli attacchi. «I risultati degli studi preliminari, durati due anni, sono promettenti – ha commentato Martha Morrel, neurologa alla Stanford University in California -. Ora aspettiamo i dati di sicurezza ed efficacia su periodi più lunghi». Il dispositivo ha appena ricevuto l’approvazione dell’Fda, l’ente di controllo sanitario degli Usa.

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