Archive for October 31, 2013

Tbc, terapia sperimentale per forma multiresistente

l’undicenne è in isolamento alla clinica de marchi

Casi di Tbc a Milano, iniziata la terapia
sul ragazzino con forma multiresistente

Esposito (Sitip): casi pediatrici del genere mai riscontrati negli ultimi 30 anni. Terapia sperimentale con 5 farmaci

Preoccupano i casi di tubercolosi a Milano. Sette quelli resi noti negli ultimi giorni: tre bambini di una scuola media, due di una scuola elementare della zona nord-est (asintomatici) e due studenti stranieri della facoltà di Scienze politiche dell’Università Statale. A far scattare l’allarme è stato un bambino italiano di 11 anni che frequenta la scuola media. «È arrivato da noi per un problema apparentemente di otorinolaringoiatra, ma le sue condizioni generali e il quadro respiratorio ci hanno insospettito. Subito abbiamo pensato alla tubercolosi e la diagnosi è stata confermata» spiega Susanna Esposito, direttore della Clinica Pediatrica I dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e presidente della Società Italiana di Infettivologia Pediatrica (SITIP). Il bambino, ricoverato nella clinica De Marchi, «è affetto da un ceppo multiresistente, chiamato XDR, caratterizzato da una resistenza allargata a un vasto numero di farmaci – chiarisce Esposito -. Si tratta di un ceppo molto raro e difficile da trattare che abitualmente non colpisce soggetti in età pediatrica, né quelli perfettamente immunocompetenti o senza patologie di base».

CINQUE FARMACI – Il bambino è sottoposto a un trattamento sperimentale, un mix di cinque farmaci. Lo segue un team di esperti del centro di controllo sulla Tbc dell’ospedale Niguarda, del Centro Oms del San Raffaele, dell’Asl di Milano e del Policlinico. «Alla luce degli esami microbiologici abbiamo finalmente potuto iniziare la terapia idonea per eradicare il Mycobacterium tuberculosis e abbiamo previsto l’impiego di 5 farmaci – spiega Esposito -. Poiché due di questi sono da somministrare per via endovenosa, il bambino resta ricoverato in ospedale per alcune settimane; saranno poi necessari parecchi mesi di terapia orale. La gran parte di questi farmaci sono utilizzati off label nei bambini (cioè in via sperimentale), ma il trattamento è necessario per la complessità e l’aggressività del microrganismo. Siamo fiduciosi nella terapia – prosegue l’infettivologa -, ma siamo anche attenti dal punto di vista psicologico, visto che il paziente è ricoverato da tre settimane e attualmente si trova in isolamento». La durata minima di una terapia del genere è di due settimane, ma può arrivare a sei mesi. Il ceppo multiresistente ha colpito anche un altro ragazzino, compagno di scuola dell’undicenne: questi ha una pleurite tubercolare, quindi ha sviluppato la malattia, causata dallo stesso microorganismo, ma non è contagioso. Per lui la terapia è un po’ meno forte. Nella stessa scuola media ci sono poi due casi che hanno una forma primaria ma asintomatica, quindi non sono considerati malati, e altri (una decina circa) positivi ma che non hanno sviluppato la malattia. Tutti questi casi meno gravi saranno tenuti sotto stretto controllo medico, con un monitoraggio di 12-18 mesi. «È una stranezza – commenta Esposito – perché si tratta di un ceppo segnalato in passato due volte, proveniente dall’Europa dall’Est, ma il bambino che ha sviluppato la malattia in forma più grave è italiano. Casi pediatrici così, con ceppi multiresistenti, non erano mai stati riscontrati in 30 anni nel nord Italia. Abbiamo solo due casi simili in adulti risalenti a circa un anno e mezzo fa».

CONTROLLI A TAPPETO – La notizia dei contagi ha fatto scattare test e controlli di massa nelle scuole, università, luoghi e persone con cui sono venuti a contatto i malati. Dei due casi accertati nella scuola media, conferma Luigi Codecasa, direttore del Centro di controllo della tubercolosi di Villa Marelli del Niguarda, «uno è abbastanza significativo e richiede attenzione, mentre l’altro è più limitato, e ci lascia più tranquilli per il trattamento. Nella classe interessata sono stati trovati altri 11 casi positivi». Non tutti coloro che risultano positivi alla Tbc sviluppano la malattia. «Vista l’alta percentuale di casi positivi nella classe – continua Codecasa – si è deciso di allargare i test a tutti i potenziali contatti, quindi anche le persone con cui i bambini possono essere entrati in contatto durante le attività extrascolastiche», come la piscina e i corsi di catechismo. Finora però «i test condotti in piscina – prosegue – non hanno riscontrato alcuna positività. Ne è stata trovata la possibile fonte del contagio tra i ragazzini. È più facile che sia un adulto, ma tra gli insegnanti non è stato riscontrato niente». Quanto ai casi trovati all’università, «uno, che in realtà risale a giugno, è sensibile a tutti i farmaci – conclude -, per l’altro siamo in attesa dei risultati, per capire se sono geneticamente identici o meno, e comprendere quale possa essere stato l’intermediario».

LINEE GUIDA – La Società Italiana di Infettivologia Pediatrica aveva lanciato l’allarme sulla tubercolosi multiresistente già lo scorso anno. Proprio per monitorare a livello nazionale i casi pediatrici più complessi, SITIP ha creato un Registro Nazionale per la Tubercolosi in Età Pediatrica in cui sono stati elencati più di 500 casi di malattia attiva diagnosticati in Italia tra il 2010 e il 2012. Il passo successivo, sotto il coordinamento della professoressa Esposito, prevede la prima riunione di esperti a Milano il 13 novembre e consiste nella stesura di linee guida sulla prevenzione, diagnosi e terapia della tubercolosi in età pediatrica, condivise da più società scientifiche. Oltre agli esperti della SITIP, parteciperanno esperti della Società Italiana di Pediatria, della Società Italiana di Neonatologia, della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale, della Società Italiana di Malattie Respiratorie Infantili, della Società Italiana di Immunologia e Allergologia Pediatrica, di STOP TB, della Associazione Microbiologi Clinici Italiani, della Società Italiana di Malattie Respiratorie, della Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri, della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, della Società Italiana di Chemioterapia, della Società Italiana di Farmacologia, della Società Italiana di Scienze Infermieristiche e del Moige.

«La tubercolosi sparirà nel 2050» Ma avanzano i ceppi super resistenti

il «mal sottile» torna a fare paura

Oms: «La tubercolosi sparirà nel 2050»
Ma avanzano i ceppi resistenti ai farmaci

L’obiettivo dell’Oms sarà raggiunto per la Tbc normale, non per quella super resistente o totalmente resistente

Di recente a Milano si sono registrati diversi casi di tubercolosi tra giovani universitari della facoltà di Scienze Politica e tra gli studenti di una scuola media. È cronaca non troppo lontana quella di numerosi casi tra gli studenti della facoltà di Medicina a Torino e tra gli alunni in una scuola di Roma. Diversi casi, anche se non sempre riportati dalla stampa, riguardano il personale sanitario di ospedali dove il flusso di cittadini stranieri, in particolare dell’Est Europa, è assiduo. L’Italia conosce la tubercolosi, o Tbc, piaga di anni lontani, ispiratrice di romanzi e opere liriche. Il “mal sottile”, legato a fame, scarsa igiene, vita sregolata. Combattuta e vinta, già prima dell’arrivo degli antibiotici, grazie a una radicale opera di prevenzione e a controlli periodici a livello scolastico e, in seguito, durante l’università e il servizio militare. Malattia debellata, guardia abbassata. Anche per risparmiare. E ora il “mal sottile” torna a far paura. Nel frattempo i bacilli che la causano, continuando a colpire all’estero, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo o in quelli senza un servizio sanitario pubblico efficiente, sono diventati molto più cattivi. Super resistenti agli antibiotici per la scarsa attenzione al rispetto dei lunghi cicli di cura. E soprattutto, in una società senza più frontiere, rientrati dalla finestra anche in quei Paesi, come l’Italia, che li avevano battuti definitivamente. Smantellare i reparti di malattie infettive oggi sarebbe un gravissimo errore perché si ha netta la sensazione che le future sfide della medicina e della scienza torneranno ad essere virus e batteri.

LE PREVISIONI – E questo proprio mentre gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ipotizzavano l’eradicazione di questa storica malattia attorno al 2050. Obiettivo che sicuramente sarà raggiunto per la tubercolosi “normale”, difficile per quella super resistente o totalmente resistente. Mario Raviglione, specialista dell’Oms, ha tracciato la rotta per arrivare a un 2050 Tbc-free davanti a 800 specialisti riuniti a Milano per il congresso della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit). E ha sottolineato gli ostacoli, come la resistenza ai farmaci, da superare. Ma soprattutto da non favorire ulteriormente. Gli antibiotici vanno usati solo quando servono e fino a quando servono: terminare una cura a metà o interromperla per poi riprenderla è un vero disastro sanitario. I numeri positivi, a livello mondiale, sono questi: per il 2015 gli affetti da Tbc dovrebbero scendere del 50%, con un calo esponenziale della mortalità. Dal 1995 al 2012 sono stati 56 i milioni di pazienti curati, mentre sono stati salvati 22 milioni di malati. E ogni anno l’incidenza cala del 2%. Per il 2035 si stima una riduzione del 95% della morte, e del 90% di incidenza. Per il 2050 le cifre sono particolarmente ottimistiche: si parla di una percentuale pari al 100%.

FORME RESISTENTI – Le notizie negative, invece, sono queste: non si potrà mai parlare di fine della infezione, anche perché i casi di tubercolosi farmacoresistente (Mdr-Tb e Xdr-Tb) sono in aumento e si stima che, ad oggi, abbiano infettato 630mila persone nel mondo. Proprio un recente importante studio ha dimostrato come le forme Mdr (multi-drug resistent) colpiscano addirittura il 47% delle persone affette da Tbc, le quali non rispondono ai due antibiotici di base che sono lo standard di cura per la tubercolosi normale, né ad almeno un altro dei farmaci di seconda linea che vengono usati quando i primi non funzionano. «Il picco si è avuto in Lettonia – spiega Giuliano Rizzardini, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano -, dove la tubercolosi Mdr rappresenta il 62% dei casi. Come se non bastasse, gli scienziati hanno visto un aumento dei casi di malattia ampiamente farmaco resistente (Xdr, extensively drug resistent), ovvero di quelli che non reagiscono nemmeno alla classe di antibiotici orali di seconda linea (quelli che si usano quando quelli di prima linea non sono efficaci, ndr) e ad almeno uno di quelli iniettabili. Il 6,7% dei pazienti infettati (15,2% in Corea del Sud, 11,3% in Russia) presentano forme di questo tipo, più difficili e costose da trattare nei Paesi più ricchi e impossibili da curare in quelli poveri. Solo questo problema necessiterebbe di un finanziamento di 1,3 miliardi di dollari l’anno».

UN RISCHIO PER TUTTI – Secondo gli ultimi dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità, nel mondo sono 8,7 milioni i nuovi casi di tubercolosi e 1,4 milioni i decessi. La mortalità è scesa di oltre il 40% a livello mondiale dal 1990 ed è in calo l’incidenza, ma persistono sfide ancora significative. Oltre il 95% delle morti si verificano nei Paesi a basso e medio reddito. I gruppi più poveri e vulnerabili sono le comunità più colpite, ma questa malattia a trasmissione aerea è un rischio per tutti. Inoltre, la tubercolosi è tra le prime tre cause di morte nelle donne tra i 15 e i 44 anni, mentre tra i bambini sono stati stimati 0,5 milioni di casi e 64mila decessi. In Europa occidentale circa il 40% dei casi pediatrici nel 2011 sono stati bambini di età inferiore ai 5 anni. E in Italia? Pochi casi, ma la Tbc torna a far paura.

È morta Brooke la «bimba» che non invecchiava mai: aveva 20 anni

SINDROME X

È morta a 20 anni Brooke Greenberg,
la «bambina» che non invecchiava mai

Il suo corpo e la sua mente erano quelli di una bambina di un anno
Il suo Dna potrebbe rivelare i segreti dell’eterna giovinezza

Brooke Greenberg (da Facebook)Brooke Greenberg (da Facebook)Ha trascorso la sua vita in braccio a mamma e papà. Aveva vent’anni ma il suo aspetto e la sua mente erano quelli di una bambina un anno o poco più. Brooke Greenberg è morta qualche giorno fa per cause non ancora note, nel Maryland (Stati Uniti). Era fra le pochissime persone al mondo (le stime parlano di meno di dieci malati) affette da una sindrome misteriosa denominata «X», che non permette a chi ne soffre di invecchiare, nè di crescere sin dall’infanzia. Brooke aveva tre sorelle cresciute normalmente e, secondo i medici, è vissuta inspiegabilmente a lungo. Ora il suo Dna potrebbe rivelare i segreti dell’eterna giovinezza.

LE ANOMALIE - Brooke viveva in un seggiolone e non è mai cresciuta. Le uniche parti del corpo che crescevano erano le unghie e i capelli e per anni le sono stati inutilmente somministrati speciali ormoni per la crescita, ma ogni terapia è risultata vana e nessun medico è mai riuscito a effettuare una diagnosi e a individuare con precisione il male di cui era affetta nonostante sia stata visitata dai più prestigiosi medici degli Stati Uniti. Test medici hanno dimostrato che Brooke potrebbe aver subito una mutazione del gene che spegne la capacità di crescere, ma nulla è mai stato chiarito davvero perché la piccola aveva anomalie apparenti nel sistema endocrino, ma non nei cromosomi. Il suo Dna, insieme a quello di casi simili, è ora sotto la lente della scienza perché potrebbe nascondere i segreti dell’eterna giovinezza e fornire importanti informazioni sul processo di invecchiamento che porta allo sviluppo di malattie come il morbo di Parkinson. «Anche dopo la sua morte Brooke potrà aiutarci a capire i meccanismi dell’invecchiamento» ha commentato Eric Schadt, direttore dell’Icahn Institute for Genomics and Multiscale Biology al Mount Sinai Medical Center di New York.

da Facebookda FacebookLA VITA DI BROOKE - Il blocco totale della crescita per Brooke è arrivato intorno ai 4 anni. Da allora in poi non è più cresciuta, non ha mai parlato e ha sempre mantenuto i denti da latte. «La crescita di Brooke è sempre stata strana sin da quando ero incinta – ha raccontato la madre Melanie ai media americani – un mese cresceva, poi si fermava, poi recuperava. È nata pretermine di un mese, pesava 1,8 chili, ma era nella norma». Negli anni successivi la bambina è stata colpita da una serie di emergenze mediche: ebbe sette ulcere gastriche perforate e attacchi di convulsioni. A cinque anni le fu diagnosticata una massa cerebrale che la portò in coma per due settimane, ma al risveglio della piccola la massa, che si sospettava fosse un tumore cerebrale, scomparve. L’anno successivo superò un ictus. Quando è morta era alta 76 centimetri e pesava poco più di sette chili.

Sfigurata in un incendio: ricostruito il volto fatto crescere sul seno

CINA

Sfigurata a cinque anni in un incendio
Ricostruito il volto fatto crescere sul seno

L’adolescente ha ora 17 anni e un nuovo viso: «Dopo 12 anni posso finalmente tornare a sorridere»

Le immagini della ricostruzione del volto diffuse dall’ospedale cineseLe immagini della ricostruzione del volto diffuse dall’ospedale cineseDopo il trapianto di un naso nuovo, fatto crescere sulla fronte di un paziente, dalla Cina arriva un altro intervento eccezionale che sta facendo il giro del mondo. Un gruppo di medici ha ricostruito il volto di un’adolescente sfigurata, facendolo crescere sul seno. Ora la ragazza ha un mento, un paio di palpebre e di orecchie nuove di zecca. E dopo, 12 anni ha ammesso finalmente di riuscire a ridere normalmente per la prima volta.

LA STORIA - La paziente si chiama Xu Jianmei, ha 17 anni e vive con in un piccolo villaggio di pescatori. È rimasta sfigurata a seguito di un incendio quando aveva solo 5 anni. In quella terribile occasione le fiamme divorarono il suo volto. I genitori non avevano abbastanza denaro per permettersi un intervento così sofisticato, ma l’equipe medica della città di Fuzhou, nella provincia del Fujian, si è offerta di effettuare l’operazione gratuitamente. Il trapianto è stato eseguito utilizzando tessuti dal seno. Il team ha prima impiantato un vaso sanguigno, asportato dalla gamba, nel petto e poi ha utilizzato un palloncino pieno d’acqua per espandere la pelle, ricreando i lineamenti di un volto. «Con il suo nuovo volto lei tornerà ad esprimersi in modo ottimale. Sarà in grado di arrossire, cambiando le sue emozioni attraverso le espressioni, ma ci vorrà pazienza e molto tempo», ha detto il chirurgo Jiang Chenhong. (Fonte Agi)

Caldo, freddo, dermatiti: ecco le cause della pelle secca

mi spieghi dottore

Quali sono le cause della pelle secca?

Caldo, freddo e dermatiti rendono la cute ruvida. Coinvolte anche patologie come psoriasi, ipotiroidismo e insufficienza renale

Chi soffre di pelle secca passa spesso da una crema all’altra, ma bisogna prima capire che cosa fa seccare la cute. «La pelle è la prima linea di difesa dell’organismo: evita l’entrata di sostanze esterne e regola il passaggio dell’acqua – spiega Carlo Gelmetti, responsabile dell’Unità Operativa di Dermatologia Pediatrica al Policlinico di Milano -. Tale funzione è possibile per la presenza nel suo strato più superficiale (epidermide) di cellule, i cheratinociti, ben coese da giunzioni intercellulari e da un materiale lipidico, le ceramidi; il tutto è completato da un rivestimento lipidico ulteriore (sebo), che impermeabilizza come fa la cera per un pavimento. Quando i lipidi sono ridotti e/o i cheratinociti meno saldi tra loro, negli interstizi possono penetrare sostanze irritanti ed è favorita la perdita d’acqua. Il risultato è una pelle secca, meno luminosa, arida e ruvida al tatto. Una pelle che, oltre a prudere, è più esposta ad allergie da contatto e infezioni».

Che cosa fa seccare la pelle?
«Il fenomeno è in crescita per due motivi principali: l’aumento dell’età media e la diffusione della dermatite atopica. Il primo è accompagnato da una graduale riduzione della produzione di sebo. La seconda è, invece, caratterizzata da un’alterazione della funzione di barriera dell’epidermide a causa della quale la cute diventa più permeabile, perdendo acqua e risultando secca, nonché più esposta alla penetrazione di sostanze esterne potenzialmente dannose. Ma la barriera della cute può essere danneggiata anche da abitudini sbagliate e condizioni climatiche. Per esempio, se si sta sotto una doccia troppo calda o troppo a lungo, la pelle poi risulterà ancora più arida. Lo stesso vale se si utilizzano detergenti aggressivi o si ricorre spesso il guanto di crine per rimuovere le cellule morte: in entrambi i casi si danneggia il film idrolipidico superficiale. Quanto al clima, avere la pelle secca è molto comune sia in inverno (per il freddo, la ridotta umidità degli ambienti e l’inquinamento), sia in estate (per l’esposizione al sole). Ci sono poi casi in cui la pelle tende a seccarsi a causa di patologie, come, per esempio, la psoriasi, l’accennata dermatite atopica, l’ipotiroidismo e l’insufficienza renale. Ma anche trattamenti esterni prolungati con cortisone possono seccare la pelle, perché la assottigliano».

Che cosa si può fare?
«Bere molto, soprattutto se l’aria è molto secca. In inverno aumentare l’umidità negli ambienti chiusi, anche con un umidificatore. Non stare troppo a lungo sotto la doccia, evitare l’acqua bollente, utilizzare detergenti per pelli secche. Dopo essersi asciugati, mettere una crema idratante o emolliente, meglio se senza conservanti, coloranti e profumi. La scelta è ampia: si va dagli ultimi ritrovati idratanti contenenti ceramidi, a prodotti a base di sostanze emollienti come il burro di karitè, la vitamina E e la vaselina. Chi ama molto gli oli, può infine trovare un valido alleato nell’olio di girasole che vanterebbe anche proprietà antisettiche».

L’effetto degli steroidi? Dura almeno dieci anni

STUDIO NORVEGESE

L’effetto degli steroidi? Dura almeno dieci anni

Nei topi da laboratorio le conseguenze durano circa tre mesi, che corrispondono a un decennio per gli umani

Esiste un meccanismo di memoria cellulare che fa sì che gli steroidi siano capaci di allungare il loro effetto per ben dieci anni: lo ha scoperto uno studio norvegese il cui prossimo obiettivo sarà naturalmente quello di ripetere l’esperimento sull’uomo. In realtà era già nota una sorta di memoria muscolare, ma si riteneva che si riferisse esclusivamente a una capacità di ripresa muscolare maggiore da parte di una persona che si è allenata in gioventù, come se i suoi muscoli conservassero un’attitudine particolare e in età senile grazie a questa memoria fossero facilitati a riacquisire massa e tono.

LA RICERCA – Kristian Gundersen, dell’Università di Oslo, ha realizzato un esperimento pubblicato sul Journal of Physiology su due gruppi di cavie da laboratorio, somministrando del testosterone solo a un primo gruppo e lasciando poi entrambi i gruppi a riposo senza essere trattati per un periodo di tre mesi. A quel punto i topi dei due insiemi sono stati sollecitati alla ripresa di un’attività fisica e i ricercatori hanno notato nelle cavie trattate un aumento di massa muscolare di circa il 30 per cento, dopo appena sei giorni di esercizio, a fronte di una reazione insignificante da parte dell’altro gruppo di animali (circa il 6 per cento di crescita muscolare). Considerata la vita media di un topo e fatte le dovute proporzioni con quella umana sarebbe come dire che se si somministrassero degli anabolizzanti a un essere umano gli effetti durerebbero per circa un decennio, con la necessità di rimettere in discussione le politiche anti-doping e i tempi di squalifica.

POLITICHE ANTI-DOPING – Gli steroidi anabolizzanti sono ormoni androgeni steroidei, come il nandrolone, lo stanozololo e il testosterone e vengono utilizzati nella cura di alcune forme di osteoporosi e artrite reumatoide, ma sono largamente usati anche da alcuni atleti come forma di doping, principalmente per aumentare la massa muscolare. Il codice mondiale dell’Antidoping Agency prevede la squalifica da competizioni sportive per un periodo variabile, da pochi mesi alla squalifica a vita. La ricerca norvegese, se i risultati fossero confermati sull’uomo, ridiscuterebbe i tempi in maniera vistosa.

Staminali, è morto il piccolo Raoul, i genitori volevano il metodo Stamina

Staminali, è morto il piccolo Raoul, i genitori erano in prima fila per l’accesso la metodo Stamina

Il bambino friulano era affetto dalla malattia di Krabbe. Lo sfogo della madre: «Perso tempo prezioso»

È morto il piccolo Raoul, un bimbo friulano affetto dalla malattia di Krabbe, una grave patologia neurodegenerativa. I genitori erano in prima fila nella battaglia per l’accesso al metodo Stamina e si erano attivati per ottenere le infusioni anche per il loro bambino. Insieme al piccolo, a ottobre avevano anche partecipato alla protesta pro Stamina a Milano, davanti al Pirellone, sede del Consiglio regionale lombardo ed erano andati fino a Roma per manifestare in piazza Montecitorio.

LO SFOGO DELLA MADRE – «Oggi il mio angioletto è andato in cielo», scrive mamma Sabrina su Facebook. «Una cosa non mi va giù – spiega – è avere le cure così vicine, eppure così lontane, impossibili. Abbiamo perso tempo prezioso in giudici, ricorsi e lotte. Lotte che non dovrebbero esserci, perché io avrei dovuto presentarmi in ospedale e dire “curate mio figlio, fatelo stare meglio”. Ma no, non si può. Tempo prezioso speso per sentirsi dire anche no. Tempo prezioso che Raoul adesso non ha più». E poi lo sfogo: «Giudici, ministri, commissione scientifica, ce l’avrete sulla coscienza questo angioletto, non vi farà dormire la notte. Lui e tutti gli altri bimbi che come lui non ce l’ hanno fatta»

Cellule staminali dalla pelle per la sclerosi multipla

lo studio

Staminali dalla pelle
per la sclerosi multipla

Esperimento rivoluzionario di ricercatori italiani.
Le prospettive per l’uomo sono a lungo termine ma
è stato compiuto un «balzo» concettuale

Cellule della pelle per curare la sclerosi multipla. È questa la prospettiva, a lungo termine, che apre un esperimento rivoluzionario condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Neurologia sperimentale dell’Ospedale San Raffaele, coordinati da Gianvito Martino e pubblicato dalla rivista scientifica Nature Communications. «Abbiamo utilizzato la procedura di riprogrammazione che è valsa il Nobel a Yamanaka l’anno scorso e abbiamo trasformato cellule della pelle di topo prima in embrionali e poi in staminali neurali – spiega Gianvito Martino -. Infine le abbiamo iniettate direttamente nel liquor del sistema nervoso centrale dei topi, in modo da mimare quella che potrebbe essere una puntura lombare in un uomo come ipotetica via di somministrazione».


Staminali dalla pelle per la sclerosi multipla



  • Staminali dalla pelle per la sclerosi multipla
       


  • Staminali dalla pelle per la sclerosi multipla
       


  • Staminali dalla pelle per la sclerosi multipla
       

IL MECCANISMO D’AZIONE – «Le cellule hanno “capito” da sole dove si trovava l’infiammazione e, una volta arrivate in loco, hanno cominciato a secernere una molecola chiamata LIF (Leukemya Inhibitor Factor), un fattore neurotrofico già noto per la sua capacità di proteggere in particolare le cellule che producono mielina (la mielina è la sostanza di rivestimento delle fibre nervose che rende possibile la trasmissione degli impulsi nervosi e il suo danneggiamento è alla base della sclerosi multipla)». Il LIF ha da un parte ha protetto gli oligodendrociti, cioè le cellule nervose che producono la mielina e, dall’altro, ha indotto a maturare i precursori degli oligodendrociti, procurando, di fatto la disponibilità di nuova mielina. «L’azione riparativa del Lif – puntualizza Martino – ha impedito il progredire dell’infiammazione, perché il tessuto danneggiato dall’infiammazione richiama altre cellule infiammatorie, è così è stato disinnescato un circolo vizioso e negli animali è stato infatti riscontrato un miglioramento».

LA «RIVOLUZIONE» – «Il fatto di poter disporre di cellule autologhe, cioè dello stesso paziente (senza quindi problemi di rigetto) e facilmente prelevabili (come quelle della cute), rappresenta un enorme vantaggio – sottolinea il neurologo -, ma la maggiore carica innovativa di questo trattamento è rappresentata dal fatto che queste cellule hanno svolto in sostanza una terapia farmacologica locale, mentre finora il dogma del trapianto di staminali si è basato sul concetto e sull’obbiettivo di trasformare le cellula staminali nella cellula matura desiderata (per esempio un neurone) per poi iniettarla al fine di sostituire le cellule malate dello stesso tipo. Inoltre – continua Martino – il nostro lavoro ha confermato il potere terapeutico delle cellule riprogrammate anche nelle malattie neurologiche infiammatorie, evento che non era facile da prevedere perché non si sapeva ancora se la riprogrammazione in laboratorio avrebbe potuto di per sé modificare le potenziali caratteristiche terapeutiche di queste cellule rendendole, in un certo senso, più ‘fragili’ e quindi meno performanti perché più suscettibili ad essere danneggiate loro stesse dal processo infiammatorio».

PROSPETTIVEOltre che bloccare la progressione della sclerosi multipla, queste cellule possono anche riparare i danni già fatti dalla malattia?
«Se c’è un danno alla mielina ma il nervo, o meglio l’assone (cioè la sua lunga fibra che trasmette gli impulsi), non è ancora compromesso definitivamente, questo sistema può avere la capacità di riparare i danni alla mielina. Se invece il neurone è già gravemente danneggiato non può essere sostituito. Quindi penso che possa essere vista come una terapia preventiva nei confronti di una ulteriore progressione della malattia».

RISCHI – Questa strategia potrebbe avere effetti collaterali?
«Abbiamo controllato fino a sei mesi dall’impianto e non abbiamo riscontrato né sviluppo tumorale né effetti collaterali di alcun tipo».

TEMPI – Quando è prevedibile una sperimentazione sull’uomo?
«In teoria la via potrebbe essere breve se guardiamo al versante sperimentale clinico, cioè al letto del malato, visto che potremmo iniettare in modo relativamente semplice, con una puntura lombare, cellule facili da prelevare, cioè quelle della pelle, senza bisogno di immunosoppressione perché donatore e ricevente sono la stessa persona. In realtà l’attesa sarà determinata soprattutto dai progressi nelle procedure di ingegnerizzazione di queste cellule. Infatti il procedimento è particolarmente complesso ed esige per ora l’utilizzo di parecchi fattori di riprogrammazione, fra cui retrovirus e lentivirus, che hanno ancora bisogno di verifiche. Yamanaka, che ha inventato la tecnica, ritiene che ci vogliano ancora 5-10 anni perché queste cellule possano entrare nella pratica clinica. Tuttavia penso che si possa professare un certo ottimismo, perché la maggior parte dei laboratori del mondo che lavorano sulle staminali utilizzano ormai queste cellule e quindi c’è una grossa spinta al progresso».

COLLABORAZIONI E CONTRIBUTI – Lo studio dei ricercatori dell’Irccs San Raffaele di Milano ha goduto della collaborazione del gruppo di Elena Cattaneo, dell’Università degli Studi di Milano, ed è stato finanziato principalmente da National Multiple Sclerosis Society (NMSS) e da AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla, con la sua Fondazione (FISM).

Epatite A dai frutti di bosco surgelati C’è il primo caso sospetto in Italia

il ministero della salute: vanno cotti per almeno 2 minuti

Epatite A dai frutti di bosco surgelati
C’è il primo caso sospetto in Italia

È una donna di 40 anni che ha presentato querela. Sulla vicenda indaga la Procura di Torino: cinque gli indagati

C’è il primo caso (sospetto) di epatite A contratta dopo aver mangiato frutti di bosco surgelati. Si tratta di una donna di 40 anni che si è ammalata all’inizio dell’estate e ha presentato querela. È il primo caso in Italia dopo l’allerta del Ministero della Salute sulla positività al virus di alcuni campioni del prodotto e la conferma dai controlli disposti dalla Procura di Torino, in seguito ai quali il pm Raffaele Guariniello ha iscritto cinque persone nel registro degli indagati per commercio di sostanze nocive.

POSITIVI AL VIRUS – Nella denuncia la donna, romana, spiega di acquistare un paio di volte al mese frutti di bosco surgelati di una delle marche “sotto osservazione” dopo alcune confezioni trovate positive ai controlli. La donna si è sentita male al lavoro e in ospedale ha poi scoperto di aver contratto l’epatite A. Negli scorsi mesi sono risultate positive al virus sei confezioni di frutti di bosco surgelati di tre diverse marche, esposti nei banchi dei supermercati. Recentemente il Ministero della Salute ha emanato la raccomandazione di cuocere per almeno due minuti i frutti di bosco surgelati prima di consumarli.

Anche in autunno le allergie non danno tregua

Rinite

Allergie, anche l’autunno non dà tregua

I primi freddi possono scatenare ugualmente i sintomi
per colpa di polvere e pollini ancora in circolazione

Bambino allergicoBambino allergico In genere passata l’estate gli allergici tirano un respiro di sollievo: le fioriture di gran parte delle piante allergizzanti sono alle spalle e l’inverno è un periodo tutto sommato “tranquillo”. Errore: anche l’autunno è il momento buono per soffrire di rinite allergica, perché l’aria respirata negli ambienti interni spesso è satura di polveri, gli acari proliferano proprio a ottobre-novembre e la stagione mite di quest’anno ha contribuito ad allungare la stagione di diversi pollini.

ALLERGIE – Lo sottolinea Giorgio Walter Canonica, direttore della Clinica di malattie dell’apparato respiratorio e allergologia dell’università di Genova e presidente eletto della Società italiana di allergologia e immunologia clinica (SIAIC), specificando che la rinite allergica, in continuo aumento con un tasso di crescita del 5 per cento negli ultimi cinque anni, è un problema che incide parecchio sulla qualità di vita dei pazienti . Purtroppo non stiamo attraversando una stagione “neutra”, come molti credono. «Ottobre e novembre hanno un clima che favorisce la diffusione dei pollini nell’aria tanto quanto la primavera: l’escursione termica fra le ore notturne, quando siamo attorno ai 10 gradi, e quelle diurne in cui si può arrivare a 20 gradi o addirittura oltre come nel mite autunno di quest’anno, favorisce la fioritura e la diffusione di graminacee, ambrosia e assenzio e soprattutto delle parietarie, comuni specialmente al centro-sud e pericolose perché, come l’ambrosia, producono pollini molto piccoli che penetrano facilmente in profondità nell’apparato respiratorio, scatenando anche l’asma».

POLVERI – Se il problema si riducesse ai pollini potremmo invocare l’arrivo del gelo sperando di cavarcela; invece in autunno e inverno si fa strada un altro nemico, l’inquinamento indoor, che rende la vita difficile agli allergici pure fra le mura di casa. «Mentre in primavera le allergie sono un fastidio quando si sta all’aperto, ora lo diventano al chiuso: gli ambienti riscaldati di case, scuole, uffici e palestre si riempiono di allergeni invisibili – spiega Canonica –. Il microclima indoor favorisce la proliferazione di acari della polvere, muffe e il “ristagnare” degli allergeni degli animali domestici: bagni e cucine “sigillate” da finestre tenute chiuse e con i doppi vetri producono un clima caldo-umido ideale ad esempio per gli acari, che proprio in questo periodo in stanze con temperature fra i 16 e i 24 gradi e un’umidità del 60-70 per cento trovano le condizioni ideali per moltiplicarsi». Inoltre passiamo più tempo al chiuso, rimanendo a contatto con gli allergeni più a lungo: così, ecco spiegato perché autunno e inverno non rendono la vita facile a tanti allergici, soprattutto ai bambini che sono particolarmente colpiti (si stima che il 13,5 per cento dei piccoli in età scolare sia allergico). «L’abitudine sempre maggiore a vivere in ambienti chiusi e sterili, soprattutto nelle stagioni fredde, ha trasformato le allergie in nemici agguerriti – dice Canonica –. Per difendersi attenzione anche ai viaggi in campagna, anche in questo periodo è meglio tenere i finestrini chiusi in auto e, in moto, usare caschi integrali , meglio se con la mascherina specifica per i pollini. In casa e soprattutto in camera da letto occorre eliminare più possibile la polvere e usare copricuscini e coprimaterassi in materiali di particolare porosità, che lasciano traspirare l’interno ma non fanno passare gli acari».

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