Archive for September 28, 2013

Come si cura la febbre nei bambini

MEDICINA PRATICA

Come si cura la febbre nei bambini

Non occorre una terapia per far scendere la temperatura se il bambino non è sofferente e gioca tranquillo

(Corbis)(Corbis)

Le medicine non si danno per abbassare la febbre, ma solo, quando necessario, per alleviare il malessere del bambino. «Se il piccolo ha 39°C di febbre ma è tranquillo e gioca senza lamentarsi, non occorre nessuna terapia» dice Alberto Tozzi, pediatra dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. «La febbre non è il nemico da combattere, ma una reazione dell’organismo per difendersi dalle infezioni — conferma Marina Picca, presidente della Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche —. Va trattata solo quando rende il piccolo sofferente e irritabile, non lo lascia dormire o mangiare normalmente». I pediatri lo ripetono da anni, ma è difficile scalfire quella che è stata ribattezzata “febbre-fobia”, l’idea infondata che l’aumento della temperatura possa provocare danni cerebrali o altre conseguenze gravi. Inutile cercare di abbassarla con spugnature o altri mezzi fisici, che possono irritare ulteriormente il bambino. E se è vero che non va imbacuccato, anche spogliarlo per farlo raffreddare non serve.

LE NUOVE LINEE GUIDA - Tutto questo è ribadito anche dalle nuove Linee guida del NICE, il National Institute for Health and Care Excellence britannico: «I due farmaci antipiretici autorizzati nei bambini sotto i sei anni, paracetamolo e ibuprofene, vanno usati per contrastare il malessere del bambino, e soltanto finché il malessere dura». Il rischio, altrimenti, è di fare più male che bene. «Anche attenendosi alle dosi consigliate è possibile superare nel corso della giornata la soglia di tossicità» mette in guardia Antonio Clavenna, farmacologo presso il Laboratorio per la salute materno infantile dell’Istituto Mario Negri di Milano. «Oppure, è possibile danneggiare il fegato se si prosegue con le dosi massime consentite per parecchi giorni — aggiunge Tozzi —. Le indicazioni del foglietto illustrativo che raccomandano un intervallo di 4-6 ore per il paracetamolo e di 6-8 ore per l’ibuprofene non vanno intese nel senso che dopo questo tempo si deve ridare il farmaco, ma solo che lo si può fare se il bambino è di nuovo sofferente». Viceversa, se il disagio non migliora dopo aver dato uno dei due medicinali, o torna prima che sia trascorso il tempo necessario per una seconda dose, gli esperti inglesi per la prima volta ammettono che si può provare a utilizzare l’altro. «Ma occorre farlo con cautela, — sottolinea Clavenna — perché in passato sono stati segnalati danni renali». «Inoltre questa alternanza espone al rischio di errori», dice Picca, che raccomanda di non dare comunque mai i due medicinali insieme. «Mai inoltre accorciare il tempo tra le due somministrazioni di uno stesso farmaco — consiglia il farmacologo — perché in questo modo, anche se la dose quotidiana totale resta nella norma, si possono raggiungere picchi di concentrazioni pericolose».

INTOSSICAZIONE - La segnalazione di alcuni casi di intossicazione da paracetamolo ha spinto qualche anno fa l’Agenzia italiana del farmaco a modificare il foglietto illustrativo, che ora fa riferimento sia all’età sia al peso del bambino. «Nel caso in cui vi sia discordanza, quel che conta è il peso» chiarisce il farmacologo Clavenna. «Perché la dose effettiva assorbita sia quella prevista è preferibile dare questi medicinali per bocca — aggiunge la pediatra Marina Picca — riservando le supposte ai casi in cui il vomito impedisce la somministrazione orale». I due farmaci se usati bene sono molto sicuri, sebbene la Food and Drug Administration americana abbia segnalato rarissime, ma gravi, reazioni cutanee da paracetamolo, mentre l’ibuprofen può provocare qualche disturbo gastrico, come tutti gli antinfiammatori.

Stamina, ricorso contro la commissione

arriverà davanti ai giudici il 23 ottobre

Stamina, ricorso contro la commissione

Vannoni contesta al Ministero della Salute la scelta degli esperti che hanno valutato e poi bocciato il suo metodo

Davide Vannoni (Lapresse)Davide Vannoni (Lapresse)

Davide Vannoni, presidente della Stamina Foundation, ha depositato al Tar del Lazio un ricorso per contestare la composizione del comitato che ha bocciato il suo metodo di cura basato sulle cellule staminali mesenchimali. Il procedimento, affidato alla III sezione quater del Tribunale amministrativo, arriverà il 23 ottobre davanti ai giudici per la discussione in camera di consiglio.

CONTRO IL DECRETO – In particolare Vannoni contesta, chiedendone l’annullamento, il decreto ministeriale relativo alla nomina dei componenti del Comitato scientifico per la sperimentazione, focalizzando l’attenzione dei giudici sul parere contrario espresso dal gruppo di esperti. «Nel ricorso, per il quale abbiamo richiesto una procedura d’urgenza – spiega il fondatore di Stamina – si contesta la composizione del comitato, in cui sono stati chiamati medici che in gran parte si erano già espressi in maniera contraria a Stamina. Non so cosa succederà ora, ma la sensazione è che il ministro si stia muovendo per cancellare la sperimentazione». Vannoni ha presentato ricorso anche al Tar della Lombardia contro il blocco imposto dall’Agenzia italiana del farmaco agli Spedali Civili di Brescia, dove viene applicato il metodo e dove è in cura anche la piccola Sofia, la bambina divenuta “simbolo” della battaglia pro-Stamina.

NO ANCHE DALLA SICILIA – Intanto, un altro parere negativo al «metodo Stamina» è arrivato, all’unanimità, dal Comitato siciliano di Bioetica che ha valutato «la comprovata evidenza della non fondatezza scientifica di tale trattamento e l’assenza di prove sia di efficacia sia di innocuità». Gli esperti hanno «evidenziato il sentito, unanime bisogno di solidarietà e di rispetto del diritto alla speranza sia per chi vive direttamente la condizione della malattia sia per tutti coloro che ne fanno esperienza attraverso i propri cari», ma nel merito, il Comitato è giunto alla conclusione che «la “metodica” sia sfornita di dati scientifici oggettivi e misurabili, su cui si fonda la medicina anche in materia di produzione di cellule staminali».

STAMINALI A DANIELE – Al contrario, c’è una nuova sentenza a favore del «metodo Stamina»: l’ha emessa il giudice del lavoro di Matera, Antonio Marzario, che ha ordinato agli Spedali di Brescia di proseguire il trattamento su Daniele, un bambino di sei anni affetto dal 2008 dal morbo di Niemann-Pick. Nei mesi scorsi il bambino era stato sottoposto al ciclo completo di cinque infusioni di staminali, traendone – secondo quanto riferito dai familiari – «evidente giovamento». In seguito gli Spedali civili avevano disposto l’interruzione della cura. È invece incerto il destino di Sofia: l’ospedale ha presentato reclamo contro il provvedimento del giudice che autorizzava il proseguimento della cura oltre le cinque infusioni programmate.

Redazione Salute Online27 settembre 2013 | 13:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il cervello delle ballerine non avverte vertigini

LO STUDIO

Il cervello delle ballerine non avverte vertigini

La porzione di cervelletto che regola l’equilibrio è più piccola
La scoperte utile per terapie a chi soffre di vertigini croniche

Anni di formazione e allenamenti provocano cambiamenti strutturali nel cervello di una ballerina che le permettono di mantenersi perfettamente in equilibrio durante le piroette. Lo ha dimostrato un nuovo studio pubblicato sulla rivistaCerebral Cortex. La scoperta potrebbe essere utile a creare innovative terapie contro le vertigini croniche. Dalle scansioni cerebrali di ballerine professioniste sono emerse alcune differenze rispetto ai non ballerini in due parti del cervello: una che elabora gli input dagli organi dell’equilibrio nell’orecchio interno, l’altra responsabile della percezione delle vertigini.

LA VERTIGINE – La maggior parte delle persone quando gira più volte e rapidamente intorno al proprio corpo ha successivamente una sensazione di vertigini. Le ballerine in grado di eseguire molteplici piroette provano poca o, in alcuni casi, alcuna vertigine. «Ci siamo chiesti se fosse possibile riprodurre lo stesso risultato anche tra i pazienti che soffrono di vertigini» ha spiegato Barry Seemungal dell’Imperial College di Londra, autore dello studio «e abbiamo scoperto che la parte del cervelletto che elabora il segnale dagli organi di bilanciamento e governa i movimenti del corpo è più piccola nelle ballerine. Il loro cervello si adatta a sopprimere la percezione della vertigine attraverso anni di allenamento. Se saremo in grado di addestrare la stessa zona anche nei pazienti con vertigini croniche potremo iniziare a trattarli con maggiore efficacia».

Il Monzino e la «cittadella della salute»

in occasione della giornata mondiale del cuore, domenica 29 settembre

Il Monzino e la «cittadella della salute»

Progetto nel quartiere Ponte Lambro: un nuovo modello di prevenzione cardiovascolare basato sulla collaborazione tra la struttura sanitaria, la popolazione e le parti sociali

Ponte Lambro è un quartiere di Milano con circa 4mila abitanti, principalmente con basso reddito, basso livello di studi e alta prevalenza di immigrati provenienti da Paesi disagiati. Il Centro Cardiologico Monzino IRCCS ha sede da 30 anni a Ponte Lambro e in occasione della Giornata Mondiale del Cuore, domenica 29 settembre, sviluppa la linea del progetto “Cittadella della salute”. L’obiettivo è sperimentare nel quartiere un nuovo modello di prevenzione cardiovascolare primordiale e primaria basato sulla collaborazione tra la struttura sanitaria, la popolazione e le parti sociali (rappresentanti di quartieri, volontari, associazioni, enti pubblici e privati). Oltre che un miglioramento della qualità di vita del quartiere, che sarà documentato, l’iniziativa dovrebbe tradursi in una riduzione del carico di lavoro e del carico economico sulle spalle del Servizio sanitario nazionale.

L’ESEMPIO DEL FUMO – La scelta del Monzino è uscire dalle mura dell’ospedale per portare il messaggio della prevenzione alla popolazione. «Oggi è a livello di comunità che si risolve lo stato di salute individuale – dichiara Elena Tremoli, direttore scientifico del Monzino -. I comportamenti sono “contagiosi”, in particolare se il modello è donna, e il buon esempio familiare non basta. L’influenza dell’ambiente è forte: bambini e ragazzi sono bersagliati da un’offerta massiccia di proposte, come pure di pressioni sociali che possono determinare la loro salute futura». Il caso tipico è il fumo, responsabile di gran parte delle malattie cardiovascolari. In Italia nel periodo 1993-1994 fumava il 9% dei ragazzi e ragazze di 15 anni di età, mentre nel periodo 2009-2010 la prevalenza è salita al 22% dei ragazzi e 23% delle ragazze. Il 18,5% della popolazione tra i 15 e i 24 anni di età fuma, e l’inizio dell’abitudine avviene durante la scuola media o superiore nella maggior parte dei casi (76% dei fumatori inizia tra i 15 e i 20 anni).

GLI APPUNTAMENTI - «Fino ad oggi il Centro Cardiologico Monzino si è occupato dei suoi malati – continua Tremoli -. Ora esce dal suo perimetro e si occupa di tutti i cittadini della sua comunità, iniziando dal quartiere, per fare in modo che non si ammalino, in un’ottica di Smart City. Il nostro principio è che se la città è smart (intelligente, efficiente) anche la salute dei cittadini è tutelata: la riduzione dell’inquinamento, e del dispendio di energia con le sue emissioni, riduce il loro rischio di malattia, l’uso di materiali e tecnologie avanzate aumenta la loro sicurezza e li aiuta ad adottare comportamenti corretti ai fini della prevenzione. Un esempio concreto è il nuovo Parco di via Vittorini dove sarà attrezzato un percorso cuore». L’evento organizzato dal Monzino per domenica 29 alle 15.30 si lega concettualmente all’evento che la Fondazione Italiana per il Cuore organizza in piazza Castello a Milano, dove sul “Tram del cuore” i medici del Monzino esperti in prevenzione effettueranno screening di prevenzione ed esami gratuiti alla popolazione. L’appuntamento a Ponte Lambro prevede un incontro tra scienziati, cittadini, medici, pazienti per discutere di prevenzione cardiovascolare, corretti stili di vita e nuovi progetti del centro cardiovascolare.

Giornata della Sla in centoventi piazze

domenica 29 settembre

Giornata della Sla in centoventi piazze
con volontari e bottiglie di Barbera d’Asti

Raccolta fondi e sms solidali al 45502 fino al 6 ottobre

Il 29 settembre l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica celebra la sesta Giornata nazionale sulla Sla, per ricordare il sit-in dei malati a Roma del 18 settembre 2006 in cui vennero avanzate al Ministero della Salute precise richieste per la difesa della cura e dell’assistenza ai malati. Il 29 settembre AISLA sarà presente in 120 piazze italiane per promuovere la campagna di raccolta fondi “Un contributo versato con gusto”: a fronte di una piccola offerta si porta a casa una bottiglia di vino Barbera d’Asti DOCG. I fondi raccolti saranno utilizzati da AISLA per finanziare il progetto “Operazione Sollievo”, che vuole alleviare le sofferenze dei malati di Sla tramite sostegno economico, supporto per la gestione del malato tra le mura domestiche e fornitura di strumenti utili a migliorare la qualità della vita.

L’INDAGINE – Da una ricerca Nielsen del 2012 emerge come per un malato l’assistenza sia considerata la priorità di intervento di cui la comunità deve farsi carico (77%). Seguono la ricerca scientifica (66%), le cure (61%) e le politiche di sostegno (42%). AISLA dal 1983 al 2012 ha destinato complessivamente una cifra superiore ai 5 milioni di euro in progetti destinati a migliorare la vita delle persone affette da Sla e dei loro familiari e 1,2 milioni in investimenti per l’assistenza. Domenica 29 i volontari saranno a disposizione per fornire informazione sulla malattia e sulle attività dell’associazione. Parte inoltre la campagna di reclutamento volontari AISLA per i quali saranno programmati corsi di formazione specifici. Per informazioni scrivere a volontari@aisla.it o chiamare lo 02.43986673.

SMS SOLIDALE – Fino al 6 ottobre è inoltre possibile sostenere AISLA inviando un sms di 2 euro al 45502 da tutti i cellulari Tim, Vodafone,Wind, Tre, Poste Mobile, CoopVoce e Noverca, di 2 euro chiamando da rete fissa TWT e di 2 o 5 euro chiamando da rete fissa Telecom Italia, Infostrada e Fastweb. I fondi raccolti andranno a sostenere un progetto di ricerca finalizzato a testare gli effetti della molecola “morfolino” su modelli animali affetti da Sla, condotto dal Dipartimento di Fisiopatologia Medico Chirurgica e dei Trapianti, Università degli Studi di Milano.

Conoscere il diabete infantile, con un fumetto

iniziativa disney per bambini e genitori: sabato l’incontro a milano

Conoscere il diabete infantile, con un fumetto

Letture e giochi per spiegare ai piccoli che la malattia non rende i piccoli pazienti diversi dai loro coetanei

La copertina del fumetto Disney dedicato al diabete nei bambiniLa copertina del fumetto Disney dedicato al diabete nei bambini

Diciottomila in Italia, quasi tremila in Lombardia. Sono i bambini malati di diabete, spesso vittime di disinformazione e pregiudizi. Proprio per sconfiggere stigma e falsi miti duri a morire, arriva un fumetto Disney dedicato al diabete dei bimbi. Il diabete di tipo 1, quello giovanile. «Coco e la festa di Pippo!» vuole spiegare ai piccoli pazienti la loro malattia e informarli che grazie alle terapie mediche e a uno stile di vita corretto, possono condurre una vita uguale a quella dei loro coetanei. Una “guida” a misura di bambino su come convivere con questa condizione ma anche su come prevenirla.

INCONTRO A MILANO – La presentazione dell’iniziativa – promossa da Diabete Italia (l’ente che raggruppa medici specializzati nel trattamento del diabete, operatori sanitari e associazioni di persone affette da diabete) e Agdi (coordinamento Associazioni italiane giovani con diabete), con il contributo di Eli Lilly e la collaborazione della Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica – è l’occasione per una giornata aperta a genitori e bambini delle scuole primarie: l’appuntamento è per sabato 28 settembre a Milano, dalle 11 alle 16 a Palazzo Giureconsulti (piazza Mercanti 2, angolo piazza Duomo). È la prima tappa di un tour che toccherà Firenze, Roma, Napoli e Catania, per concludersi a Bari a fine novembre. L’obiettivo è spiegare cos’è il diabete giovanile, come conviverci, ma anche come prevenire le forme di malattia legate a stili di vita sbagliati, come sedentarietà e obesità, che tra i piccoli italiani raggiunge numeri record a livello europeo. I bambini che parteciperanno alle giornate a tema seguiranno, guidati da un pediatra e un’animatrice, un percorso ludico-didattico legato al nuovo fumetto: lettura, composizione di un puzzle e disegni dedicati ai protagonisti. Saranno presenti anche dei bambini diabetici.

IL CASO DI CHIARA – In Lombardia nel 2005 è stata emanata una circolare che definisce le linee guida per l’inserimento e l’assistenza del bambino diabetico nella scuola. «Due anni fa a una delle nostre alunne, Chiara, è stato diagnosticato il diabete – riferisce Maddalena Dipace, insegnante e referente Area salute della scuola primaria che fa capo all’Istituto comprensivo Maffucci di Milano -. Quando l’ha scoperto Chiara è cambiata emotivamente, si sentiva diversa dagli altri bambini. Ma dopo poco è stata lei, insieme a noi maestre, a spiegare tutto ai compagni. Ora sono proprio i suoi amichetti che le ricordano che è l’ora di misurare la glicemia». A Milano interverranno, in qualità di relatori: Maghnie Mohamad, endocrinologo all’Istituto Gaslini di Genova e presidente Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica; Marina Scorrano, vicepresidente Agdi (coordinamento Associazioni italiane giovani con diabete); Salvatore Caputo,dell’associazione Diabete Italia.

Tumore dell’ovaio, nuovo farmaco per guadagnare tempo prezioso

TERAPIE

Tumore dell’ovaio, nuovo farmaco
per guadagnare tempo prezioso

Un’indagine svela come vedono il futuro le donne dopo la diagnosi. Una cura può ritardare le ricadute

Dopo 15 anni senza novità di trattamento, è in arrivo anche in Italia una nuova arma terapeutica contro il carcinoma dell’ovaio, in grado di contrastare le recidive e prolungare la sopravvivenza senza che la malattia progredisca. Si tratta del primo farmaco biologico approvato in Europa per il trattamento delle donne affette da tumore ovarico in stadio avanzato non pretrattate. «Fino a oggi il trattamento di questo tumore ginecologico particolarmente aggressivo è stato limitato a chirurgia e chemioterapia e, a differenza della maggior parte degli altri tipi di cancro, non era disponibile alcun farmaco biologico – dice Sandro Pignata, Direttore dell’Oncologia Medica al Dipartimento Uro-Ginecologico dell’Istituto Tumori Pascale di Napoli -. Purtroppo ancora molto spesso la neoplasia viene scoperta tardi e la diagnosi precoce continua a rappresentare un vero e proprio ostacolo, perché il tumore spesso non dà sintomi evidenti fino alle fasi avanzate. Così, nonostante l’efficacia della chemioterapia, il tumore si ripresenta e avere un ulteriore trattamento a disposizione fa guadagnare tempo prezioso alle pazienti».

IL FUTURO? PIÙ PREZIOSO – Dopo la diagnosi di tumore ovarico il tempo assume un valore e un significato diversi, come rilevano i dati di una ricerca realizzata da Doxa Pharma con il supporto dell’associazione pazienti ACTO Onlus (Alleanza Contro il Tumore Ovarico). «I dati evidenziano che per le pazienti la diagnosi è un punto di non ritorno, che rivoluziona il modo in cui viene percepito e vissuto il proprio tempo di vita – dice Flavia Bideri, presidente Acto -. Ancora oggi la diagnosi precoce rappresenta un vero e proprio ostacolo e nel 70 per cento dei casi la neoplasia viene scoperta in fase avanzata. La malattia in molti casi non manifesta sintomi, tuttavia maggiore informazione e attenzione aiuterebbero le donne a riconoscere i primi campanelli d’allarme, anticipando il momento della diagnosi». Ad esempio, per quanto sintomi generici, è meglio non trascurare dolore e gonfiore addominali, persistenti oppure intermittenti o la necessità di urinare spesso, parlandone con il proprio medico. «Secondo il sondaggio il momento più complesso si presenta al termine dei trattamenti, quando le pazienti vivono la ricerca della normalità perduta, si interrogano sul futuro e riflettono sul percorso affrontato – commenta Gadi Schoenheit, vicepresidente di Doxa Pharma -. Per una donna su due il futuro è più prezioso di prima e si vive con maggiore attenzione a ogni momento. Negli anni vissuti senza recidive, poi, le donne ricominciano a pensare al futuro, persino a percepirlo come illimitato».

IL NUOVO FARMACO – In Italia si registrano circa 4.900 nuovi casi di tumore ovarico ogni anno e l’età media di comparsa della malattia è intorno ai 60 anni, ma è in crescita il numero di casi diagnosticati in età avanzata, oltre i 70 anni. Circa il 5-10 per cento dei casi è ereditario, legato cioè alla trasmissione genetica familiare della mutazione di due geni chiamati BRCA1 e BRCA2. «Il tumore ovarico ha un’elevata sensibilità alla chemioterapia, ma nonostante circa l’80 per cento delle pazienti risponda positivamente ai farmaci chemioterapici la malattia si ripresenta con una recidiva nella maggior parte dei casi – chiarisce Nicoletta Colombo, direttore della Divisione di Ginecologia Oncologica Medica all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano -. Per questo l’attenzione medico-scientifica negli ultimi anni è stata rivolta allo sviluppo di trattamenti in grado di ritardare e contrastare la recidiva del tumore, per permettere alle pazienti di vivere più a lungo senza malattia. Gli studi effettuati hanno dimostrato che il farmaco anti-angiogenetico bevacizumab, aggiunto alla chemioterapia e somministrato in fase di mantenimento, prolunga la sopravvivenza senza progressione di malattia. È cioè è in grado di ritardare la recidiva di alcuni mesi. Questo risultato ha importanti effetti sulla qualità di vita delle pazienti, perché la recidiva porta spesso con sé profondo sconforto e angoscia. È però importante sottolineare che non tutti i casi recidivano e oggi circa il 30-40 per cento delle pazienti guariscono, inoltre i trattamenti permettono di prolungare la vita di anni anche dopo la recidiva».

Che cosa si può fare per la rosacea?

MEDICINA PRATICA

Che cosa si può fare per la rosacea?

Contro il «rossore» poco sole, acqua tiepida e niente alcolici
In alcuni casi può essere utile anche il bisturi

Rimedi per la rosaceaRimedi per la rosacea

Una volta era considerata l’acne degli adulti, ma non è così. La rosacea è una dermatite infiammatoria che non comporta la presenza dei comedoni tipici dell’acne. È chiamata anche couperose per l’arrossamento della cute nelle fasi iniziali. «Si stima che interessi l’1% della popolazione, soprattutto tra i 40 e i 60 anni» spiega Stefano Veraldi, professore associato della Clinica dermatologica dell’Università di Milano e organizzatore dell’Acne and Rosacea Days, convegno che si terrà a Milano il 27-28 settembre.

Come si riconosce la rosacea?
«All’inizio con arrossamento della cute e dilatazione dei capillari (teleangectasie) soprattutto su guance, naso e fronte. Chi ne soffre può presentare anche eritrosi, cioè arrossamenti che dapprima vanno e vengono e poi diventano persistenti. In taluni casi si formano papule prima e pustole poi. Le pustole, diversamente da quanto avviene nell’acne, però, sono prive di batteri patogeni. Nelle forme più gravi, e più rare, nonché più comuni negli uomini, c’è un ispessimento (ipertrofia) dei tessuti, che a volte diviene molto evidente sul naso, che si presenta gonfio e con superficie irregolare (rinofima). Infine, in rari casi si possono avere complicazioni oculari».

Quali sono le cause della rosacea?
«Le cause non sono ancora chiare. Al suo sviluppo concorrono fattori diversi tra cui disturbi della microcircolazione, familiarità, proliferazione sulla cute di un particolare acaro (Demodex folliculorum), fattori ambientali (esposizione al sole, sbalzi di temperatura), psicologici e immunologici».

Come può essere curata?
«Innanzitutto non sottovalutandola, perché è più facile intervenire con successo quando la rosacea è in fase iniziale. L’approccio varia a seconda della gravità. Nelle forme lievi si predilige un trattamento locale in genere con retinaldeide, un derivato della vitamina A. Altri farmaci topici di comune utilizzo nelle fasi intermedie sono metronidazolo, acido azelaico e azeloglicina, che agiscono anche nei confronti del Demodex folliculorum. Il Demodex, in chi soffre di forme particolarmente infiammatorie, è presente sulla cute in quantità superiori alla norma. Nelle forme moderate si possono usare anche alcuni antibiotici orali (soprattutto tetracicline e macrolidi). L’isotretinoina orale viene in genere riservata alle forme gravi. La chirurgia può rendersi necessario in casi importanti di rinofima, mentre il laser vascolare può essere d’aiuto per le teleangectasie».

Consigli generali da seguire per chi ne soffre?
«Limitare l’esposizione al sole e farlo sono dopo aver applicato fattori di protezione, non bere alcolici, evitare gli sbalzi di temperatura, lavarsi il viso con acqua tiepida o fresca, usare detergenti specifici per la malattia, non usare cosmetici contenenti alcol, mentolo e prodotti grassi in generale».

Pazienti in stato vegetativo La difficile vita delle famiglie

indagine dell’istituto neurologico besta di milano

Pazienti in stato vegetativo
La difficile vita delle famiglie

L’assistenza comporta un gravoso impegno economico e, spesso, costringe i familiari ad abbandonare il lavoro

Il problema è anche economico, soprattutto in questi momenti di crisi: chi ha un parente in stato vegetativo, per mesi o addirittura per anni, non solo deve sopportare il peso dell’assistenza e affrontare gli aspetti emotivi, ma può andare anche incontro a gravi difficoltà finanziarie. E, secondo un’indagine condotta all’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, molti sono anche costretti a rinunciare al lavoro, in maniera temporanea o definitiva, per accudire il familiare. Spesso i pazienti sono uomini con un’età media di 55 anni che, se superano i primi tre anni, durante in quali la mortalità è più elevata, si stabilizzano e tendono a sopravvivere a lungo, rimanendo in carico alle famiglie. La ricerca del Besta ha coinvolto in totale 602 pazienti con grave cerebrolesione acquisita (Gca): nel giro di due anni 207 sono deceduti, 120 sono migrati in altre strutture e anche se i loro dati sono stati rintracciati, non sono stati presi in considerazione per lo studio. Sono rimasti così 275 pazienti che sono stati seguiti contemporaneamente ai loro familiari (in totale 216).

MINIMA COSCIENZA – I ricercatori hanno potuto così valutare l’evoluzione delle condizioni cliniche dei malati e l’impatto che questa loro situazione ha avuto sui familiari. Diversamente da quanto si è pensato finora, i pazienti possono evolvere clinicamente nel tempo: il 14 per cento, infatti, nel giro di due anni è passato dallo stato vegetativo (caratterizzato da uno stato di veglia, ma senza contenuto di coscienza e consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante) a quello di minima coscienza (caratterizzato da uno stato di coscienza alterato nel quale comportamenti minimi, ma definiti dimostrano una consapevolezza di sé e dell’ambiente) o dalla minima coscienza alla gravissima disabilità.

SPENDING REVIEW – «La nostra ricerca evidenzia – commenta Matilde Leonardi, coordinatrice dello studio e responsabile della Struttura di Neurologia – che le capacità residue dei pazienti, e non la diagnosi, possono dare un’indicazione circa l’evoluzione successiva e che la riabilitazione non deve essere interrotta per dogma o per spending review. Infatti, le potenzialità di recupero che possono non essere così evidenti nei primi mesi, quando sono i problemi di sopravvivenza ad avere il sopravvento, si possono esprimere in momenti successivi, grazie alla plasticità del sistema nervoso. Per queste ragioni, il malato e la famiglia devono poter contare su un’assistenza adeguata durante tutta la malattia e non solo nelle prime fasi».

CARICO EMOTIVO – Per quanto riguarda i familiari, invece, lo studio ha dimostrato che il carico assistenziale giornaliero si mantiene elevato anche a distanza di due anni, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una condizione di malattia che tende a stabilizzarsi. La percentuale di familiari che passa più di tre ore al giorno con i malati, in due anni, è salita dal 55 per cento al 59,7. E il 34 per cento dei familiari è stato costretto a rinunciare al lavoro, in maniera definitiva o temporanea, per accudire il parente malato. Oltre al carico assistenziale e a quello economico, rimane importante anche quello emotivo, nonostante il passare del tempo sembri ridurre l’entità dei sintomi depressivi fra i caregiver.

L’epatite E fa paura in Gran Bretagna

si diffonde con l’acqua contaminata dalle feci

L’epatite E fa paura in Gran Bretagna

L’infezione da campylobacter è la più frequente, ma desta curiosità l’incremento dei casi di contagio da virus Hev

Un allevamento di maiali (Ansa)Un allevamento di maiali (Ansa)

Tra le epatiti virali è quella di più recente scoperta, oltre che la meno conosciuta: per via di una diffusione sporadica nei Paesi industrializzati. Così, almeno, è stato finora. Ma l’ultimo rapporto stilato dal Dipartimento inglese per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali ha portato in copertina l’epatite E, da cui ogni anno risultano affette venti milioni di nuove persone nel mondo: per lo più in India, Asia, Africa, Medio Oriente e America centrale, con la fascia di età compresa tra i venti e i quarant’anni che risulta la più esposta. Sebbene in Gran Bretagna l’infezione da campylobacter resti la più frequente, tra le malattie a trasmissione alimentare, a destare maggiore curiosità è il rapido incremento dei casi di contagio da virus Hev.

ZOONOSI - Diffuso principalmente attraverso il consumo di acqua contaminata dalle feci, il virus dell’epatite E, a differenza degli agenti infettivi della stessa famiglia, è l’unico che ha dimostrato di poter essere trasmesso a partire dagli animali: suini in primis, ma anche polli e tacchini. È per questo che, in ambito scientifico, si parla di una zoonosi, diffusa soprattutto per via diretta nelle categorie a contatto con gli animali: al punto da non poter escludere che, in futuro, possa essere inquadrata come malattia professionale. Il virus, riscontrabile in quattro diversi genotipi, si manifesta raramente come un’infezione acuta fulminante (nelle aree endemiche) e nella maggior parte dei casi come infezione subclinica, se il contagio avviene attraverso gli animali. In quest’ultimo caso il genotipo 3 è il più diffuso. «L’epatite E è spesso asintomatica – afferma Roberto Cauda, ordinario di malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma -. Il quadro clinico si caratterizza per la perdita dell’appetito, la stanchezza, la produzione di urine scure e feci chiare, la febbre e l’ittero cutaneo».

DAI MAIALI ALL’UOMO – I casi di epatite E nel Regno Unito, come testimonia la relazione, risultano in ascesa: del 39,5% tra il 2011 e il 2012, anno a cui si riferiscono gli ultimi dati disponibili. A differenza del passato, nel 2012 sono aumentati i casi autoctoni (da genotipo 3), sviluppati in persone che non avevano frequentato aree ad alto rischio. Ben 409 persone, in prevalenza donne, hanno infatti scoperto di essere affette dall’epatite virale, senza essersi allontanati troppo dall’Inghilterra e dal Galles. Ovvero: il 70% dei nuovi malati, rispetto a un media del 45,3% rimasta costante tra il 2003 e il 2012. Una spiegazione certa del trend di crescita non c’è, ma non avendo riscontrato contaminazione delle acque i sospetti sono concentrati sui suini.

L’EPATITE E IN ITALIA – Il nostro Paese può essere considerato a basso rischio: «Nel periodo 2007-2010 sono stati notificati sessanta casi, il 58% dei quali di importazione – spiega Anna Rita Ciccaglione, direttore del reparto epatiti virali dell’Istituto Superiore di Sanità -. Ma è un dato sottostimato, a causa del carattere spesso subclinico dell’infezione. Quanto ai casi autoctoni dovuti al genotipo 3, non è possibile definire l’esatta proporzione a livello nazionale, poiché la definizione del genotipo virale non rientra nell’attuale procedura del sistema di sorveglianza». L’epatite E, che di norma guarisce in un paio di settimane, è particolarmente pericolosa se contratta nel terzo trimestre di gestazione. «In questo particolare periodo della vita si possono verificare episodi di epatite fulminante e complicazioni ostetriche, se l’infezione è sostenuta dai genotipi virali 1 e 2 che circolano in Asia, Africa e America centrale. Non è stato finora riportato un aumento del tasso di mortalità tra le donne in gravidanza affette da virus di genotipo 3».

SALSICCIA CONTAMINATA – A parziale conferma dell’ipotesi riguardante l’origine animale del virus, c’è un lavoro inglese pubblicato l’anno scorso su Emerging Infectious Diseases, secondo cui il 10% della carne suina analizzata – campionata lungo le varie fasi della lavorazione: nel macello, negli stabilimenti di trasformazione e nei punti vendita al dettaglio – è risultata contaminata dal virus dell’Hev. «Stiamo assistendo al passaggio da un’ipotesi di lavoro, la trasmissione della malattia attraverso gli alimenti, all’accettazione ufficiale come realtà comprovata su cui occorrerà intervenire – precisa Luca Bucchini, esperto in sicurezza alimentare, attraverso Prometeus, il magazine dell’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani -. Per prevenire il contagio è importante cuocere bene la carne, portandola a una temperatura al cuore di almeno 71 gradi: da controllare con un termometro casalingo che verifichi l’esatto grado di calore raggiunto».

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